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Dal 19 al 23 maggio prossimi gli Stati Uniti e la Commissione Europea si incontreranno di nuovo nella ridente cittadina di Arlington, 220mila anime nel cuore della Virginia, per capire se riusciranno a far avanzare il negoziato di liberalizzazione commerciale (ma non solo) più ambizioso e pericoloso della storia. Per far crescere il consenso in quella parte dell’Europa che ancora adesso – a partire da Francia e Germania – resiste all’idea e può affondare processo, il commissario europeo al Commercio De Gucht, che ha aperto per tre settimane una consultazione online sul sito della Commissione per rabbonire quella parte dell’opinione pubblica che lo accusa di scarsa trasparenza nel negoziato, sta affrontando una marcia forzata di incontri con imprese e istituzioni competenti. In Francia, ad esempio, ha sventolato la possibilità per gli esportatori di abiti e di tessile nazionale – che oggi pagano tariffe del 30% e 40% sul valore delle merci rispettivamente per mettere i loro prodotti in vendita negli Usa – di vedere quei livelli drasticamente ridotti. Stessa cosa ha detto per i produttori di latte, che arrivano a vedersi imporre fino al 139%. Peccato che non ha precisato fino a quale livello di prevede di scendere, né il prezzo da pagare in termini di prodotti statunitensi da far arrivare più agilmente sulle nostre tavole o nei nostri armadi, e a spese di quali comparti produttivi. La propaganda è quella di favorire le piccole e medie imprese che però, guarda caso, non esportano, dunque non beneficerebbero di eventuali nuovi spazi commerciali in Usa, ma subirebbero una drastica concorrenza da parte delle multinazionali statunitensi del cibo a prezzi stracciati.
Senza contare che il Congresso Usa non ne vuole sapere di aprire il proprio mercato ai nostri prodotti, soprattutto alimentari e tessili: il leader della maggioranza in Senato, Harry Reids, ha infatti annunciato che il presidente Obama non godrà del loro via libera per affrontare il TTIP in procedura accelerata (fast track), in cui egli avrebbe potuto negoziare in piena autonomia lasciando al Senato il solo voto finale “prendere o lasciare”. Notizia che ha fatto chiedere a Detlef Wetzel leader del più potente sindacato metalmeccanico europeo cioè la IG Metal tedesca, uno stop immediato ai negoziati da parte europea descrivendoli come “pericolosi”, soprattutto per l’inadempienza da parte USA rispetto agli impegni assunti in materia di diritti del lavoro dal resto della comunità internazionale. Gli Stati Uniti, infatti, hanno ratificato soltanto 14 delle 190 Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, registrando un livello di promozione di questi diritti tra i più bassi del mondo. Gli Usa hanno ratificato soltanto due delle otto convenzioni fondamentali che si occupano di lavoro forzato, lavoro minorile, libertà di associazione e discriminazione. Non hanno ratificato, per di più, le convenzioni 87 o 98, fondamentali per assicurare la libertà d’associazione sindacale.
Con questa prospettiva ci si avvicina alle elezioni europee, chiamate a rinnovare il Parlamento e, auspicabilmente, anche a spostare l’ampia maggioranza che al suo interno ha votato favorevolmente per l’avvio del TTIP: tutti gli eletti italiani, tranne Gianni Vattimo nel gruppo ALDE, i liberali democratici. Per questo la Campagna Stop TTIP Italia (www.stop-ttip-italia.net) lancerà nel mese di maggio un appello a tutti i candidati perché s’impegnino a fermare il negoziato prima che sia troppo tardi per un Paese già così in crisi come il nostro.
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