27Giugno2014 La pace come progetto negli scritti di Tom Benetollo

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Abbiamo fatto la pace: così si intitola il libro che raccoglie articoli ed interviste a Tom Benetollo lungo più di due decenni, e presentato a Montecitorio, davanti a parenti, amici e compagni nel giorno del decimo anniversario della sua morte, avvenuta il 20 giugno 2004. Un titolo che sembra raccogliere, esplicitandone la dimensione collettiva, l’eredità più preziosa che ci ha lasciato Tom, ovvero quella di un’etica del pacifismo: un’esperienza umana e politica segnata sempre dalla scelta della partecipazione e del mettersi in gioco.

Di seguito riportiamo alcuni brani del libro, percorrendo “in pillole” attraverso le parole di Tom un viaggio nel tempo, nei grandi conflitti e nelle grandi mobilitazioni per la pace che hanno segnato gli ultimi vent’anni del secolo scorso. Il testo è disponibile in consultazione presso il Centro di Documentazione Tom Benetollo. Per info: arcs@arci.it

In Palestina e in Israele si svolge tra il 1989 e il 1990 uno straordinario laboratorio di dialogo e paziente tessitura di relazioni di cui Tom è promotore infaticabile. Questa la sua testimonianza:

«Era il 30 dicembre 1989: 30mila israeliani, palestinesi, europei circondarono con una catena umana le mura di Gerusalemme. Fu un momento di straordinaria emozione. Alla porta di Jaffa, si ascoltava la canzone di Bob Dylan Masters of War piena di risentimento verso i padroni della guerra. C’era – ci dirà poi un alto ufficiale dell’esercito – la parte migliore di Israele. (…)

“1990: Time for Peace” è stato un grande evento di popolo e di massa. Lo sono state le due manifestazioni di piazza, quella delle donne il 29 e la catena umana il giorno dopo. Ma lo sono state anche tutte le dieci giornate, dal 24 dicembre al 4 gennaio, durante le quali i 1.400 pacifisti europei e americani si sono “diffusi sul territorio”, per andare a incontrare gruppi di pacifisti, comitati, associazioni; per parlare (a volte con enormi difficoltà) con la gente dei villaggi, dei campi profughi, dei kibbutz, delle città, sia israeliane che palestinesi. Un’esperienza che ha riprodotto e moltiplicato molte e molte volte quella delle delegazioni che sono andate in questi due anni in Palestina, e ha aperto un capitolo del tutto nuovo: il rapporto diretto non solo con i pacifisti ma con la gente di Israele. Questi livelli di partecipazione, sia alle manifestazioni che agli incontri, non erano affatto scontati, né fra gli israeliani né fra i palestinesi. Sono il frutto di una scelta politica difficile che comportava, per tutti, un grosso salto in avanti e molti rischi».

Sulla guerra nella ex Jugoslavia, che tanto ha impegnato l’Arci e il movimento per la pace in Italia negli anni Novanta, Tom non lesina critiche agli organismi internazionali:

«Perché l’Onu non ha potuto, voluto, saputo fare quanto richiesto dalla sua stessa mission? E, a proposito di Srebrenica, perché sono rimasti a difendere i profughi solo quaranta soldati olandesi, spaesati e senza ordini, al momento dell’entrata dei masnadieri del macellaio Mladic? La nuda verità è che noi volevamo che l’Onu difendesse quella gente, chiedevamo migliaia di soldati a Srebrenica. Perché non c’erano? Chi non li ha forniti? La tragedia assoluta è stata l’assenza di volontà di trovare una soluzione politica, e la contemporanea presenza, invece, di piani politici e di potere nel dramma jugoslavo». E ancora: «Fin dalle avvisaglie della guerra, nel giugno 1991, il Movimento pacifista ha chiesto che fossero inviate forze internazionali di interposizione nelle zone più a rischio. Se ci avessero dato ascolto, si sarebbe evitata la catena delle pulizie etniche: sia quelle serbe sia quelle croate. Invece, ha prevalso la latitanza degli organismi internazionali – penso alle Nazioni Unite, innanzitutto – che potevano assumere quell’iniziativa. (…) Alla fine, ricostruendo i fatti, sulla ragione ha prevalso la logica delle lobby economiche che si sono organizzate per afferrare poteri politici, agganci internazionali e privilegi economici. Le lobby hanno schiacciato il volere delle popolazioni. Io sono convintissimo che i diversi popoli della Jugoslavia avrebbero desiderato tutto, meno la guerra per bande. Indubbiamente, il nazionalismo è fenomeno complesso. Ancora di più in Jugoslavia. Ma la degenerazione della miscellanea tra nazionalismo e patriottismo, che è una particolarità di quelle zone, è stata spinta all’estremo da gruppi politici e economici organizzati.

Rispetto al ruolo che i cittadini possono avere nelle dinamiche di cooperazione ed interlocuzione con i popoli in conflitto, Tom chiarisce quale dovrebbe essere: «un ruolo basato su quel concetto di reciproca responsabilità fra i popoli, che è per noi la traduzione moderna, nel mondo dell’interdipendenza, del vecchio concetto di “solidarietà”. Un ruolo, e uno spazio politico, non opposto o contrapposto a quello dei partiti, o delle istituzioni: ma nemmeno sostituibile, o intercambiabile con essi. Un ruolo che è solo e specificatamente nostro: dei movimenti, della società civile. Poiché altre forse, più organizzate, più istituzionali, più rigide nelle forme e nelle piattaforme politiche non hanno, non potrebbero avere, la stessa capacità di uscire dagli schemi e di agire in prima persona la stessa autonomia, flessibilità, spirito umanitario».

E infine, una parola decisamente limpida sul valore e l’attualità della nostra Costituzione:

« L’articolo 11 della Costituzione italiana è tutt’altro che invecchiato. Frequenta il futuro. E se ci sono zone d’ombra tra la parola forza e la parola guerra, è necessario che siano la politica e il diritto a illuminarle».

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