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Paesi di intervento
Racconto di un’umanita’ che vive a Gaza
“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case”, quando 135 mila persone a Gaza hanno perso le loro. Molte sono state rase al suolo dai bombardamenti israeliani. Chi è sopravvissuto ha avuto la “fortuna” di ricevere il preavviso di un missile lanciato sul tetto, che qualche volta ha ammazzato, ogni tanto ha anche salvato. Altri hanno ricevuto la chiamata preventiva da parte di Israele: “Stiamo per bombardare casa vostra”. Un minuto, cinque, un quarto d’ora, mai abbastanza per dire addio a una casa e, con essa, a una vita. Poi c’è chi è dovuto fuggire dalla propria abitazione, in particolare a partire dal 17 luglio, data in cui ai bombardamenti aerei si è aggiunta l’operazione via terra: colpi sparati a distanza ravvicinata, distruzione di case, scuole e ospedali (come gli ospedali di Al-Wafa e Al-Aqsa) un esercito che avanza, uccide e occupa.
“Voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e i visi amici”, quando a Gaza 1,2 milioni di persone (su 1,8 milioni) sono senza acqua o ne dispongono in modo molto limitato, sono senza corrente né carburante per azionare i generatori. L’iftar, il pasto con cui si rompe il digiuno durante il mese di Ramadan, a volte può diventare per gli sfollati una scatoletta di tonno da dividere tra tutta una famiglia. Quando qualcuno a Gaza esce di casa, non sa se riuscirà a tornare, non sa se tornerà e ritroverà i volti delle persone care. Di certo non ritroverà più il loro sorriso, perso sotto le macerie di questo massacro.
“Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”. Lavora nel fango per cercare di recuperare corpi intrappolati sotto le macerie, si nutre ancora della speranza flebile di trovare qualcuno ancora vivo. A Shujahyea, quartiere di Gaza City, il 20 luglio si è svolta la giornata più sanguinaria dall’inizio del conflitto: una strage di uomini, donne e bambini ai quali le ambulanze, sotto l’incessante fuoco israeliano, non hanno potuto prestare soccorso per ore. Un proiettile di un cecchino ha raggiunto quest’uomo, nel tentativo disperato di riportare qualcuno alla vita.
“Considerate se questa è una donna senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno”. Non ha un nome, ma costituisce un numero, senza identità né umanità: l’esercito israeliano attribuisce numeri ai bersagli da colpire. Il grembo è freddo per aver perso i propri figli: 166 bambini sono morti dall’inizio dell’attacco, con una media di un bambino all’ora, “effetti collaterali” di un conflitto che lascia i suoi occhi di madre asciutti dopo le troppe lacrime.
“Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore, stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”.
Ironia della sorte che queste parole parlino di un’altra strage, la shoa. Ci ricordano che nessuna strage di esseri umani è legittima, nessuna ragione è accettabile. Non lo è la paura di nuove shoa, non lo è il diritto di Israele a difendersi, scusa con cui l’esercito continua a colpire civili indifesi. Scolpite queste parole nel vostro cuore, non dimenticatevi di quello che sta accedendo in questa parte del mondo, mai abbastanza lontana perché possiate trascorrere la vostra vita tranquilla, come se niente fosse.
Questa a Gaza è una strage che è ancora in corso: 693 vittime e 4.519 feriti, numeri che continuano a crescere di ora in ora. Non possiamo dimenticarcene e non possiamo rimanere in silenzio. Considerate se questi sono esseri umani e se voi siete esseri umani.
Gerusalemme, 23 luglio 2014
Alessandra Magda
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