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I volontari del Servizio Civile Arci Empolese Valdelsa
Anche quest’anno, come ogni anno, molti ragazzi hanno scelto di mettere a disposizione un anno della propria vita per il Servizio Civile.
Un anno di cittadinanza attiva e partecipazione, durante il quale si applica in ogni azione il concetto che “il mondo non cambia con la tua opinione, ma con il tuo esempio”; si cerca, si conosce, si prova a capire, si scambiano le conoscenze affinché il bagaglio da portarci via dopo questa esperienza sia più colmo e più pesante possibile.
Ed è con questo spirito che nasce l’intervista dei ragazzi del Servizio Civile Arci Empolese Valdelsa ad Alessandra Magda e Manuela Ecate, impegnate anch’esse in un progetto di Servizio Civile ma a migliaia di chilometri di distanza, in un territorio difficile, soprattutto in questo momento storico: la Palestina.
E’ così che il Servizio Civile diventa opportunità di crescita, lo diventa quando, grazie ad una videochiamata, si entra in contatto con l’altra parte del mondo e quando, pur essendo divisi da migliaia di chilometri, si vive la consapevolezza di essere tutti parte della stessa esperienza.
Si annulla la timidezza tipica di chi non si conosce e deve scrutarsi dallo schermo di un pc e si trasforma in apprensione per le colleghe che si trovano in quel territorio così difficile: “ragazze, come state? Com’è la situazione?”
Perché sembra di conoscersi da una vita quando si condividono gli stessi percorsi in nome degli stessi ideali.
Alessandra e Manuela si trovano a Gerusalemme. Ci raccontano che la situazione in quella zona è relativamente tranquilla.
Siamo interessati alla questione del muro ed è la prima cosa che chiediamo loro. Siamo la generazione che ha visto il muro di Berlino solo sui libri di storia e lo ha visitato come un monumento, come il residuo di un tempo che non c’è più, lì ad indicarci quello che è stato ma vuoto come una bomba esplosa, senza più valore.
Tra la Palestina e Israele invece c’è un muro vero, una bomba che esplode ogni giorno, ogni qualvolta si debbano attraversare check-point, subendo i più disparati controlli del caso, dalle perquisizioni fisiche a quelle mentali: ti chiedono dove tu stia andando, con chi, e perché, rubandoti un pezzo della tua vita, ogni volta. Delegittimando tutto ciò che sei, costringendo chiunque ad avere una giustificazione dei propri spostamenti, in un esilio forzato che stride con l’articolo 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato”.
Può capitare che un check-point divida il villaggio dei contadini dalle proprie terre e in quel caso serve un permesso di lavoro per poter entrare, che non è semplice da ottenere ed è revocabile.
Le ragazze ci spiegano che, se prima della costruzione del muro si impiegavano circa 15 minuti per attraversare determinate zone, adesso per compiere il medesimo tragitto ci vogliono almeno 3 ore.
Lo dice con la voce rotta dall’emozione, Alessandra, quello che rappresenta questo muro:
“è come vedere fisicamente un orizzonte di possibilità che è bloccato, un confine potenziale delle cose da fare, da vedere, da immaginare, da progettare, che sono bloccate da questo limite”.
Speriamo che presto non sia più così.
Abbattiamo i muri!
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