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Paesi di intervento
di G.M., volontario nell’ambito del progetto di Servizio Volontario Europeo Youth MEDIocracy Makers
Non ci sono vittime a Beitunia questo Venerdì, solo due feriti e qualche caso di asfissia per eccessiva inalazione di gas; si è stati fortunati poteva andare molto peggio. Già, perchè il carcere di massima sicurezza di Ofer è situato al centro di una vallata (tra la statale 94 e Ramallah), un posto dall’alta strategicità militare visto che le manifestazioni degli abitanti della città palestinese cominciano sopra la vallata, dall’alto dunque, e ciò ovviamente non risulta essere un grande problema per i cecchini dell’Israeli Defense Force che, anzi, in questo modo hanno tutta la visuale spianata per colpire -ed eventualmente arrestare se non peggio uccidere- i solidali e i manifestanti. Notizia risaputa oltre che evidente, questa, che però non ferma i consueti raduni del Venerdì.
L’unica strada che collega la città di Beitunia al carcere è una ripida discesa sterrata oltre la quale si intravedono le torrette di avvistamento israeliane, ovviamente presidiate da jeep e furgoni dell’esercito. Ci si apposta, dunque, tutti sulla cima della collina che sovrasta la vallata, preparando mani, scarpe, kuffye e gola, poichè a breve la situazione diverrà letteralmente irrespirabile a causa dell’elevata quantità di lacrimogeni lanciati dai soldati che già hanno allertato altre pattuglie dopo aver scorto i primi giovani tra i cespugli. Sembra quasi non esserci un punto ben delineato di inizio degli scontri: pian piano i vari ragazzi appostati sulla collina cominciano a lanciare le pietre dalle loro rudimentali barricate, mentre i più grandi riempiono delle bottiglie di vetro con vernice colorata. L’obiettivo della manifestazione è puramente dimostrativo e non usa armi, anzi, in queste zone la modalità di “affronto” ai soldati da parte dei manifestanti rientra perfettamente nella categoria della battaglia nonviolenta (si veda a tal proposito “ http://frontierenews.it/2016/03/la-vallata-partigiana-di-kafr-qaddum/ ”), e si pone come obiettivo, oltre che l’espressa volontà di smantellamento di quell’avamposto Israeliano in terra araba, la comunicazione del supporto e della piena solidarietà ai prigionieri politici Palestinesi al suo interno; si perchè Ofer non è un semplice carcere di detenzione ed espugnazione dei reati, ma è un vero e proprio centro punitivo per tutti coloro che sono considerati “scomodi” dal governo e dall’esercito Israeliano, a prescindere dalla propria bandiera o appartenenza religiosa. Non un tentativo di lotta al terrorismo (affermazione pubblica di Israele per legittimare la sua ciclica violazione delle norme internazionali), dunque, ma mera volontà di mettere a tacere tutti coloro che decidano di far prendere coscienza ai cittadini e di smuovere la melma nella quale molti purtroppo si sono affievoliti, com’è successo a Manal Al-Tamimi, pacifista Palestinese per i diritti umani e coordinatrice del comitato di resistenza popolare di Nabi Saleh, che durante la notte dell’8 Marzo, ha ricevuto la visita notturna dei soldati dell’IDF che l’hanno prelevata da casa senza capi di imputazione o possibili moventi e per tre giorni ne hanno fatto perdere completamente le tracce, detenendola ed interrogandola -si saprà dopo- a Ofer, luogo da cui è stata scarcerata qualche giorno fa, senza alcuna sentenza o condanna, ma con un solo ammonimento imperativo: “sei una persona nota”.
Una lotta politica, dunque, ben conosciuta da tutti i Palestinesi che ora hanno la possibilità ogni venerdì di non far sentire soli i detenuti, di non abbandonarli all’isolamento politico e legale, di far sapere che fuori c’è ancora qualcuno che lotta per la loro stessa causa.
Le jeep escono dagli avamposti e cercano di risalire la collina per raggiungere i solidali, sparando nel frattempo diversi tipi di gas lacrimogeni dei quali uno, tra i più pericolosi visto che esplode in aria frantumandosi in vari pezzi, colpisce di rimbalzo la gamba di un volontario della Mezzaluna Rossa (il servizio di prima emergenza che cerca di tutelare l’incolumità dei manifestanti, sempre in prima linea in tutte le situazioni di conflitto dalla West Bank alla striscia di Gaza, e per cui molto spesso viene preso di mira dai soldati) costringendolo ad interrompere il suo basilare lavoro per automedicarsi.
I mezzi dell’IDF fanno avanti e indietro lungo la strada che circonda il carcere, offrendosi come facile bersaglio per pietre e vernice in modo da far avanzare i manifestanti e aprire la visuale ai vari cecchini appostati, ma i giovani conoscono la strategia e non cedono il passo, inalando pertanto ingenti quantità di gas e rischiando molte volte la vita per gli spari ad altezza uomo; a questo punto la battaglia si sposta.
Non riuscendo a far smuovere di molto il gruppo di contestatori, le jeep decidono di accerchiarli, entrando in questo modo in “Territorio A” ossia la zona sotto amministrazione dell’Autorità Palestinese, e di fatto spostando tutti gli scontri all’interno della città palestinese di Beitunia: un atto teoricamente non consentito ma di fatto praticato per consuetudine, ogni qual volta, beninteso, non si vengano ad incrociare pattuglie Israeliane e pattuglie Palestinesi, cosa molto rara. I lanci di pietre e vernice proseguono per tutto il pomeriggio e così anche quelli delle bombolette e dei proiettili israeliani che deturpano molte delle case e dei muri della piccola cittadina araba e che di fatto darà ancora più lavoro a chi quel giorno ha deciso di esporsi per i prigionieri rinchiusi ad Ofer e per la libertà del proprio territorio.
Nessuna perdita nessuna vittoria, dunque, solo molte pietre, cassonetti e divani incendiati, jeep e furgoni variopinti e gas nei polmoni, ma la guerriglia urbana ha nuovamente dimostrato la sua vicinanza a chi è attualmente rinchiuso per le proprie idee, e questa volta non ha mietuto vittime, grazie sopratutto al tempestivo operato dei sanitari delle ambulanze della mezzaluna rossa e dei pochi internazionali che hanno prontamente medicato i feriti e vegliato sui manifestanti per ogni singolo minuto della contestazione -quando non erano impegnati a vegliare su se stessi sotto il fuoco incrociato delle truppe di terra e di appostamento- e alla quale si deve la maggior parte degli onori per svolgere non solo attività di emergenza ma anche di denuncia delle violazioni dei diritti umani su bambini, donne e anziani.
Contemporaneamente si veniva nuovamente a sapere dell’uccisione, a Gerusalemme -Porta di Damasco-, dell’ennesimo adolescente, il decimo in questa settimana, al quale non spetterà nessuna manifestazione di vicinanza o di tutela dai suoi connazionali dall’altra parte del muro, soltanto l’incisione del proprio nome nel lungo muro di sangue che vede i volti dei giovani protagonisti della disperata resistenza di un popolo al collasso ma estremamente dignitoso: il popolo Palestinese.
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