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Paesi di intervento
di Elisa Piccioni
BEIRUT- Il mese scorso, un giovane ballerino siriano di 25 anni rientra nel suo appartamento ad Hamra, quartiere centrale di Beirut, e si lancia dal sesto piano. Qualche giorno prima, sul suo profilo facebook aveva lasciato un messaggio, un tentativo di condividere il profondo dolore e senso di ingiustizia che lo logorava, in cui si augurava la fine del regime in Siria, dello Stato Islamico, di Israele, e del corrotto governo libanese, terminando “non appartengo a nessuna confessione o partito politico, sono la creatura del mio Dio”.
La morte del talentuoso Hassan, noto per la sua partecipazione ad Arab Gots Talent nel 2013 e per aver preso parte a diversi spettacoli teatrali a Beirut, ha riacceso l’attenzione sulla disperazione e il dramma vissuto dai rifugiati siriani, arrivati ormai a 4.5 milioni, e sulle conseguenze psicologiche del conflitto. Lontani da casa e dai progetti di una vita, in molti lottano per ricostruirsi una normalità in esili non voluti, immersi in rompicapi quotidiani e complessi come quelli affrontati in Libano, Paese non firmatario della Convenzione di Ginevra, dove non viene accordato lo status di rifugiato ma, allo stesso tempo, non è possibile lavorare e solo pochissimi riescono ad accedere ai programmi di ricollocamento.
Secondo uno studio del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, circa il 41% dei giovani siriani intervistati in Libano ha pensato di commettere suicidio, mentre il 17% avrebbe preso seriamente in considerazione l’ipotesi di farla finita, in mancanza di alternative dignitose. Come molti altri siriani, Hassan Rabeh non aveva un permesso di soggiorno che gli permettesse di lavorare legalmente in Libano e viveva nella paura di essere arrestato o rimandato in Siria, alternativa che per molti giovani significa il servizio militare obbligatorio.
Le nuove regole di ingresso nel paese, entrate in forza il 5 gennaio 2015, rendono più difficile a chi tenta di lasciare la Siria l’ingresso legale in Libano, mentre le nuove procedure per il rinnovo dei permessi (complicate, costose e spesso arbitrarie), spingono molti rifugiati nell’illegalità, che si traduce in rischio di arresti e maltrattamenti nelle carceri.
Stretti nella morsa burocratica, umiliati nel quotidiano, senza possibilità di proseguire gli studi o di iniziare a lavorare, una generazione è tenuta sul bordo di un precipizio dove non si può tornare in dietro, ma solo cercare disperatamente di non cadere. Alla vulnerabilità dei giovani adulti, si aggiunge quella dei bambini, degli anziani, delle famiglie la cui situazione è resa ancora più difficoltosa dall’aumento della tensione nel paese, attribuita ormai alla presenza di siriani. Raid, arresti preventivi e coprifuoco si sono verificati in modo sempre più frequente negli ultimi anni, aggiungendo un crescente senso di insicurezza alle già difficili condizioni di vita vissute dalle famiglie siriane.
A cinque anni dallo scoppio del conflitto, e con oltre 640 milioni di euro spesi in aiuto umanitario dalla sola UE, la condizione dei rifugiati in Libano sembra peggiorare di giorno in giorno a causa delle nuove regolamentazioni sui permessi di soggiorno e in mancanza di politiche di sviluppo a lungo termine in grado di innescare duraturi processi di resilienza. Secondo l’UN Refugee Agency, World Food Program e UNICEF, circa il 16% dei rifugiati siriani vivono in condizioni inaccettabili e pericolose per la salute, alle quali si aggiunge una crescente sensazione di insicurezza e mancanza di dignità.
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