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Paesi di intervento
Giulia Moresco, volontaria del workshop video in Libano, ci racconta la sua esperienza
Fuori dall’aeroporto l’aria è calda, umida, mamma Beirut ci accoglie così, in un abbraccio bollente sotto un cielo opaco e biancastro, come fossimo i suoi figli prodighi, fuggiti e fuggiaschi.
Il primo contatto con la città è inspiegabile e violento anche se la fisionomia delle strade e delle case, appena scorte da un taxi in corsa, ricorda le città occidentali: le periferie napoletane dei ragazzi in motorino senza casco, la movida milanese fuori dai locali e gli edifici lussuosi e intoccabili che nessuno può permettersi; ma sotto tutto questo – un guscio di pietra, architettura moderna e Lamborghini (che, sembra sciocco, ma ce ne sono tantissime) – sopravvive il racconto di un paese ferito e tormentato dalla recente guerra, di statue, sguardi e palazzi che ne portano tutt’ora il peso e il ricordo. Edifici sventrati, incavati, come se a un utero fosse stato strappato un figlio, bombardati e divorati dai topi, che spuntano d’improvviso dietro una curva lasciando tutti muti, attoniti, quasi pieni di vergogna nel guardare il frutto di un massacro senza vinti né vincitori.
Dieci giorni sono troppo pochi per comprendere il cuore di questa città, che è schiva e viva, ipocrita e allegra, ammaliante nel suo infinito caos e nella sua eterna contraddizione. Dal tassista abusivo che in pochi minuti di viaggio racconta della sua vita passata tra le montagne e di sua nipote, che gli manca, ai ragazzini che ballano allegri per le strade di Hamra, alle famiglie che fissano il mare a La Corniche, e chissà a cosa pensano o per cosa si rattristano, all’uomo dell’alimentari all’angolo che ogni mattina ti augura il buongiorno. Beirut è fatta di infinita gentilezza, di quiete e di accoglienza, ma può essere soffocante, respingente, muta nella sua eterna sofferenza. A Beirut vuoi restare, per porre fine ai tuoi dubbi, per svelare i suoi trucchi e i suoi segreti come fosse una fanciulletta con troppe vesti e maschere addosso da scoprire e, allo stesso tempo, vuoi disperatamente lasciarla perché solo tornata a casa, in una Roma imbottigliata nel traffico, ti rendi conto di quanto ti siano mancate le stelle – che pure in città si vedono poco – gli alberi, l’aria che resta inquinata, ma meno di Beirut. Eppure Beirut ti resta ancorata addosso, come il suo cielo basso.
Sono stati dieci giorni intensi, felici e tristi insieme, forti nei mille insegnamenti, nelle mille parole dette, scritte e ascoltate, nello sguardo che muta a ogni prospettiva diversa, a ogni svolta, perché mai prima di allora avevi pensato davvero, in totale franchezza, di essere così privilegiata dietro i tuoi confini e il tuo passaporto europeo. E allora dieci giorni, seppure troppo pochi, pesano come un mese intero, e tornata a casa ti chiedi (mi chiedo) se sono sempre la stessa. Sono tornata in una Milano deserta, svuotata dei suoi abitanti ma pur sempre uguale mentre io non lo sono più, come se la mia intera fisionomia, il mio intero modo di guardare fossero cambiati, come se ancora tenessi a mente esposizione e diaframma e avessi da rivedere l’intero mio mondo circostante, registrarlo da capo.
Nella notte milanese sento ancora l’aria di Beirut, la musica araba, il sapore di arak e za’atar in bocca, il cardamomo del caffè turco, e penso alle ombre di Shatila, alla guerra e ai suoi figli, alla loro innocenza, generosità e incoscienza che spezza il cuore, alla mia rabbia immeritata e al mio amore insensato.
Soffro di una terribile nostalgia quando torno a casa, che è comune, è umana, comprensibile, e ogni volta mi faccio piccola, scontrosa, silenziosa. Ma questa volta il rientro è arrivato non come un pugno al petto, una mano in gola, una sensazione di nausea e tristezza ma più come uno sdoppiamento. Come se io fossi qui, ma non ci fossi davvero. Allora voglio ricordare Beirut, la bella e la cocciuta, la santa e la martire, ammettere che mi ha spezzato il cuore, me l’ha ricomposto e poi rubato ancora, mi ha soffiato polvere sugli occhi e sangue sulla pelle, mi ha fatta ridere, piangere, ballare, amare, soffrire, come non credevo di essere più in grado di fare. Quando sono tornata a casa non mi sentivo triste, ma divisa, spezzata in due ma viva, piena di cose da raccontare. Ancora spaesata, ancora ferita, ma già pronta a ritornare o solo a ricordarla. Beirut la cieca, Beirut la folle. Beirut, la controversa.
In questi dieci giorni ho imparato un nuovo modo di guardare, di comunicare, un nuovo mestiere (chissà!), ho scoperto una nuova famiglia e una nuova casa, ho imparato a non definire con superficialità ma a guardare più a fondo, ho sperimentato la serenità infinita e lo stupore e la rabbia quando qualcuno ti dice che da qui non se ne può andare ma che per ora non importa, domani si vedrà. Ho scoperto che anche in Siria i bambini giocano a biglie e i libanesi hanno il biliardino – ma in legno, un po’ più squadrato -, che i sogni non sono poi così diversi, che forse, nel mio avere tutto, sono io in difetto perché mi affido troppo a quello che mi han detto, che il senso di appartenenza e il concetto di casa comunque è lo stesso, e pure il cielo è sempre quello. Che se i limiti non li abbiamo ce li inventiamo lo stesso.
(Grazie ad ARCS che ha permesso tutto questo, a Paolo e Matteo per la loro curiosità e i loro insegnamenti, a Elisa, per il modo in cui vede il mondo e la dolcezza con cui lo racconta, Martina, Diana, Maria Rita, per aver condiviso con me questo viaggio. A Marwa e tutte le persone che si sono raccontate ai nostri occhi inquieti e hanno offerto qualcosa di sé, che sono tante e di molte non so nemmeno scrivere il nome, scusatemi. A Beirut e alla sua gente, che ci sia nata, cresciuta, o sia solo di passaggio).
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