19Dicembre2016 Un popolo che non si rassegna, ostinato nella speranza di avere libertà e giustizia

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di Franco Uda, Vicepresidente ARCS

Nel mare magnum dei conflitti globali quello israelo-palestinese sembra essere il grande rimosso di questa prima fase del XXI secolo. Dai più considerata la madre di tutte le tensioni e ingiustizie mediorientali, presa come bandiera da tanta parte della sinistra storica internazionalista del nostro Paese e non solo, la “questione palestinese” rischia oggi di essere consegnata a un oblio non dichiarato, sommersa dalla tragica cronaca di guerre sanguinose e altrettanto laceranti incorrenti nella stessa area. Un focolaio che non si è mai spento, che agisce sottotraccia nella quotidianità, che oggi non produce – se non sporadicamente – episodi eclatanti o sangue e morti come altrove ma che, nel colpevole e talvolta connivente silenzio della Comunità internazionale, costituisce a tutti gli effetti un gigantesco tumore nel corpo del diritto internazionale e uno spregio della Carta fondamentale dei diritti umani.
La recente missione dell’ARCI nelle terre della Palestina aveva lo scopo di ascoltare le diverse voci di una società civile ormai sfiancata dai tanti anni di guerra e occupazione, di ristabilire e rilanciare dei rapporti con le organizzazioni con le quali storicamente si sono intrecciati rapporti progettuali e di solidarietà materiale e politica, di aggiornare le forme di sostegno ad un percorso di pace giusta e di difesa dei diritti fondamentali. Emerge un quadro di una società delusa rispetto alla comunità internazionale dalla quale si sente abbandonata, che ha perso fiducia nelle proprie formazioni politiche – sempre più impegnate a replicare se stesse senza un autentico segnale di rinnovamento e un’adeguata riflessione sulla propria capacità di rappresentanza -, preoccupata del proprio futuro e delle prospettive di vita delle sue giovani generazioni.
Nei tanti incontri svolti emerge chiaramente il tema dei diritti negati, la consapevolezza di non essere titolari di alcun elemento minimo di cittadinanza: lo si coglie nettamente quando si incontrano le associazioni che si battono contro la detenzione di minori senza un adeguato processo e in assenza delle garanzie minime di uno stato di diritto; quando si parla con i tanti contadini che vedono, giorno dopo giorno, la confisca delle proprie abitazioni e la riduzione delle proprie terre – quelle dei loro padri – nelle quali tentare di imbastire una qualche forma di economia di sussistenza, per lasciare spazio a nuovi insediamenti di colonie israeliane; quando si comprende come le discriminazioni colpiscono anche gli elementi minimi di mobilità all’interno della regione, visibilmente limitata dai check-point, dal muro di separazione, dalla viabilità duale (alcune strade – le migliori e più nuove – sono percorribili solo dalle auto israeliane).
In questo quadro di evidente sproporzione di forze – militare, economica, di relazioni internazionali – ci si potrebbe aspettare un popolo rassegnato ad alzare le mani, ad arrendersi ad un ineluttabile destino di sottomissione, dopo aver provato e riprovato per lunghissimi anni a trovare una strada per la libertà e l’indipendenza, prima con l’opzione militare, successivamente con la ricerca di un accordo di pace o di riconoscimento internazionale.
Eppure in loro persiste pervicacemente una dignità e una fierezza che travalicano le categorie della razionalità e del buon senso, un’ostinazione della speranza a dispetto dei tanti segnali di disimpegno o di acquiescenza. Oggi la società palestinese si trova di fronte a un bivio: prendere la strada della recrudescenza del conflitto contro Israele in chiave religiosa-jihadista o riproporre la propria storica caratterizzazione laica con una scelta di resistenza nonviolenta.
Per le associazioni, per le ong, per le organizzazioni della società civile, del nostro Paese ed europee, riprendere a occuparsi della Palestina significa provare a svolgere un ruolo in questa difficile fase: non ci chiedono più quella solidarietà materiale che pure e tanto è stata messa in campo per tutta l’ultima parte dello scorso secolo, ma un impegno più politico e di advocacy. La sfida è quella di far uscire la questione palestinese dal cono d’ombra nel quale si trova, rimettere al centro della più ampia vicenda bellica del medio e vicino oriente e del Mediterraneo il conflitto israelo-palestinese, operare su un livello sovranazionale per una più ampia e completa informazione, avviare delle campagne ad hoc su singoli aspetti della difesa dei diritti umani e per il raggiungimento di una convivenza paritaria e pacifica tra i due popoli. Su tutto ciò l’ARCI e la sua ong – anche in collaborazione con altre organizzazioni della società civile e istituzioni locali – metterà la propria parte d’impegno nel prossimo futuro.

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