17Aprile2018 Riguardo le foto scattate a Beirut

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di Pasquale Menditto, partecipante al workshop fotografico in Libano

Dall’aereo la città sembra andare in frantumi: il profilo moderno dei grattacieli del Downtown si dissolve nelle tinte stinte dei palazzi in cemento armato, addossati l’uno all’altro fino a formare un groviglio inestricabile di facciate. A mano a mano che l’aereo si abbassa, scompaiono anche loro e dalla città distesa emergono nugoli di casupole e baracche. I vecchi campi profughi.

Come si arriva a Nabaa?

Tutti i tassisti fanno un cenno d’assenso quando gli comunichiamo la destinazione, prima di disperdersi nel traffico cittadino lasciandoci ogni volta in un posto diverso ai margini del caseggiato. Ad un certo punto ci sei dentro, impari a distinguerne i confini. Foto dopo foto riconosci i negozi, gli angoli delle strade, i palazzi, i graffiti sui muri, la sagoma del minareto, o la croce sospesa tra cavi all’inizio di una strada.

Nella stanza del Centro culturale mi guardo intorno per fissare i nomi dei miei compagni, i loro volti, i loro occhi. Poi scendiamo in strada in cerca di un ritratto, una storia, un colore, un dettaglio. Il cielo è lattiginoso il primo giorno, la pioggia è ancora raccolta in piccole pozze lungo le strade affollate di gente.

Si sta fuori nel quartiere, seduti vicino al proprio negozio, sulla soglia a fumare l’ennesima sigaretta. Non fare foto. Rubare una foto, un’espressione, uno sguardo. La vita quotidiana scorre indisturbata negli androni logori dei palazzi, ai tavoli dei caffè, nei gesti semplici del proprio lavoro. Noi stiamo in giro con la macchina vicino all’occhio: cerchiamo di misurare la luce, la temperatura dei colori, la messa a fuoco. Ci scattiamo foto per esercizio, per ricordare. Il tempo si riversa in un frame, e la giornata si risolve in una lunga serie di foto troppo scure, troppo bruciate. Stiamo insieme, facciamo gruppo, accumuliamo parole… Le diverse lingue si accavallano nel tentativo di comunicare.

Nabaa si tira dietro le ombre di interminabili guerre, di morte, di fughe. Vite sospese in attesa di documenti, pezzi di carta su cui ricostruire un orizzonte. Cercare di coesistere nella povertà quotidiana, negli spazi angusti, marginalizzati da una città che sembra volersi dividere fino a diventare straniera a se stessa.

Ultimo giorno.

Sono con Ali in giro per cercar di portare gente all’esposizione delle foto del Workshop. Ogni volta che ci fermiamo provo a spiccicare qualche parola in arabo fallendo ad ogni tentativo, e costringendo Ali a suggerirmi una parola dopo l’altra. Davanti ad un bar ci fermiamo a parlare con due uomini, che sembrano aver finito di lavorare da poco, tanto che uno dei due indossa ancora il cinturone con gli attrezzi da manovale. Sono entrambi siriani. Quello col cinturone mi ascolta divertito mentre sfiguro la sua lingua, poi chiede qualcosa ad Ali, prima di rivolgersi a me in inglese.

Sono siriano, dice, ho studiato ingegneria a Damasco… Sono ingegnere. Qui, il lavoro… (indica gli attrezzi), dateci una mano… portami in Italia.

Ride, accendendosi una sigaretta.

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