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Paesi di intervento
di Maria Crevani, partecipante al workshop fotografico in Libano
Il progetto Media for Change, promosso da ARCS e dall’associazione libanese Basmeh&Zeitooneh, si è proposto di documentare la realtà del quartiere. Una settimana, dal 23 al 31 Marzo 2018. Un workshop di fotografia partecipativa, perché Naba’a si può raccontare solo mettendosi in ascolto, adottando una narrazione che rivendica il suo essere di parte.
E la fotografia, strumento narrativo, viene costruita facendo propria la prospettiva – privilegiata, nel caso del fotogiornalismo – di chi vive una data realtà. Il confine tra soggetto rappresentato e fotografo si assottiglia, quando si sceglie di lavorare su un piano simile.
Fondamentale è stata la presenza e il sostegno degli abitanti e delle abitanti del quartiere all’interno del corso: libanesi, siriani, palestinesi, curdi; una Beirut, un Libano su scala ridotta. Dieci gli italiani che si sono lasciati accompagnare tra le strade di Naba’a, mettendo da parte superficialità e stereotipi per cercare di coglierne tutta la complessità.
“Mumkin?, posso?”.
A conclusione una mostra fotografica nel centro comunitario Al-Hayat, perché una restituzione territoriale era necessaria. Una quarantina di stampe, musica, cibo, sguardi incuriositi – e divertiti – dal riconoscere pezzetti della propria quotidianità appesi alle pareti in formato A3.
E’ difficile rappresentare una realtà come Naba’a, perché è difficile da comprendere.
Ed è difficile da comprendere perché, innanzitutto, è difficile da leggere: anche se a forte presenza sciita, sono infiniti i segni che la attraversano, i simboli identitari, i volti dei martiri sui poster per strada. Chiese, moschee, cavi elettrici, graffiti, croci, bandiere – armene, curde, libanesi, Hezbollah. E’ estremamente variegata dal punto di vista etnico-culturale e religioso, Naba’a, ma ha una sua coerenza in termini sociali: è un quartiere popolare. Diverse le origini, le lingue, le tradizioni; una sola la classe.
Schiacciata tra il mare e la caoticità cittadina, Bourj Hammoud si estende su un’area di circa 2,5 km quadrati. 150’000 abitanti, secondo il sito della municipalità, ma i dati sono del 2005: è un argomento delicato, la demografia in Libano, considerato l’equilibrio confessionale su cui si regge il sistema statale ed
amministrativo, con le cariche pubbliche rigidamente divise tra i vari gruppi religiosi. Per questa ragione,
fondamentalmente, l’ultimo censimento nazionale ufficiale risale al 1932. In ogni caso, e anche a causa delle
ondate migratorie degli ultimi anni, Bourj Hammoud rimane una delle aree più congestionate del Medio
Oriente.
Il Libano ha 6 milioni di abitanti, il 34% nato in un altro Paese. Oltre un milione, probabilmente un milione e
mezzo, i siriani arrivati dopo il 2011 – ma, ancora una volta, non ci sono dati certi: dal maggio 2015 il
governo libanese ha imposto all’UNHCR la sospensione delle registrazioni, ritenendo di aver raggiunto il
limite della propria capacità di accoglienza. C’è indubbiamente altro, in questa chiusura, che ha a che vedere con il peculiare equilibrio su cui si regge la repubblica: la tensione sociale e confessionale è latente. Non ha mai sottoscritto la convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo statuto dei rifugiati, il Libano, e non ci sono campi profughi ufficiali delle Nazioni unite. Con la stretta sugli ingressi e sull’integrazione dei siriani, la
situazione di questi ultimi si è ulteriormente precarizzata.
Bourj Hammoud è da sempre casa di sopravvissuti. Sorge negli anni ‘20, su un terreno strappato alla palude dall’estrema speranza di armeni sfuggiti al genocidio, e si sviluppa in quella che oggi è una municipalità autonoma a forte vocazione commerciale e artigianale. Nel corso dei decenni altre comunità di profughi hanno plasmato la sua identità, fianco a fianco con lavoratori migranti – filippini, bengalesi, etiopi, attirati dal relativamente basso costo della vita e dalla dinamicità del territorio.
Negli ultimi anni a Bourj Hammoud sono arrivati i siriani – 34 000 nel 2015, secondo le autorità locali – col
tempo sottoposti a misure restrittive (un coprifuoco imposto nel Luglio 2014, per “ragioni di sicurezza”),
discriminazioni e episodi di violenza. Ciononostante, la situazione rimane generalmente controllata e la
convivenza pacifica. Numerose le associazioni e le ONG operanti nell’area, in stretta collaborazione con
abitanti e rappresentanti della comunità.
Bourj Hammoud e Naba’a sono angoli di mondo in cui si incrociano numerose sfide del nostro tempo: la convivenza multietnica e multireligiosa, l’accoglienza dei migranti, le criticità di un’urbanizzazione selvaggia. Raccontare il proprio quartiere – i propri affetti, i propri vicini, il proprio vissuto – oltre la narrazione mainstream, aprendosi anche a sguardi venuti da lontano, permette di arrivare a un gradino successivo nella presa di coscienza necessaria al cambiamento: permette di dare dignità di storia alla propria storia.
Yalla Naba’a.
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