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Cala la notte sul sesto giorno di proteste, l’indomani delle proposte presentate dal Primo Ministro libanese, Saad Hariri. Da Beirut alla Bekaa, da nord a sud, ogni parte del Libano è stata coinvolta con blocchi stradali e gente nelle piazze.
L’intento del popolo libanese è chiaro, si parla di rivoluzione, “Thawra”, e si chiede la caduta del sistema.
A poco sembra servire ciò che ieri è stato annunciato dal governo: misure che prevedono il taglio degli stipendi di ministri e parlamentari, privatizzazioni, contributi bancari e investimenti dall’estero nonché l’approvazione del budget 2020. Il discorso di cinque minuti di Hariri, a seguito dell’ultimatum di 72 ore lanciato venerdì sera scorso ai suoi al fine di trovare una soluzione alla critica situazione del Paese, appare come una tiepida risposta alle volontà espresse dai libanesi.
Troppo debole, tanto che la gente continua a rimanere in piazza e afferma di non volersene andare finché qualcosa cambierà veramente. Si vuole. la certezza che queste misure vengano effettivamente e concretamente realizzate. Per altri invece è troppo tardi da tempo per altro, si parla di governo tecnico.
Ormai esasperati da una classe politica inefficace e corrotta e stretti in una crisi economico-sociale che dura ormai da anni, i libanesi vogliono ora farsi sentire e avere voce in capitolo sulle sorti del Paese.
Migliaia sono scesi nelle strade, un movimento eterogeneo spontaneo che ha saputo organizzarsi autonomamente. Nelle piazze vengono distribuiti volantini per spiegare il piano verso la transizione. Gruppi di volontari si riuniscono ogni mattina per ripulire le strade dai rifiuti, banchetti di cibo e musica accompagnano i manifestanti. Ci si riappropria degli spazi pubblici, proprio quelli lussuosamente ricostruiti dall’élite libanese, come Downtown a Beirut, e lo si fa in pieno spirito libanese: si balla la dabke, si fanno concerti, si sorride, si canta e intonano slogan contro il sistema ed i governanti.
Quello che contraddistingue queste proteste infatti è la presenza di persone di diverse generazioni, fasce sociali e credo. Il popolo libanese si è riunito al di là delle appartenenze politiche e religiose e lo fa in ogni parte del Paese, stretti sotto un’unica bandiera, quella del Cedro: alcuni parlano di questo momento come il vero segno della fine della guerra civile.
Giovani, anziani, donne, uomini, bambini e famiglie, in migliaia ormai da sei giorni gremiscono le piazze in un’atmosfera di festa perché il cambiamento sta per arrivare. Resta da capire le forme che questo prenderà, questa forse la sfida più grande ora, ma ci si sta preparando. Questi giorni di continue dimostrazioni offrono il tempo al popolo libanese di elaborare questa risposta, percorso che si è fatto strada tra i vari movimenti di protesta del secondo decennio degli anni duemila, culminate con le rimostranze del 2015 della campagna YouStink, dando vita a nuove alternative politiche.
Le strade continuano a rimanere bloccate, gli uffici pubblici, le scuole e le banche chiuse, le piazze gremite di gente e le proteste di fronte ai palazzi delle istituzioni e la banca nazionale libanese persistono. Il popolo vuole far cadere il sistema, c’è voglia di cambiamento e fino a quel momento il Libano sembra non volersi fermare.
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