05Aprile2020 Tunisia: dove ritroverà le risorse per ripartire?

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di Alberto Sciortino

Per quanto la diffusione del virus in Tunisia sia ancora solo una piccola frazione di quella dell’Italia e di altri paesi, é un brutto colpo per chi ha lavorato per anni a Tataouine, dove ARCS ha realizzato il progetto « TER-RE », apprendere che il villaggio di Ras el Oued, uno di quelli in cui abbiamo appoggiato le donne nel costituire il proprio Gruppo di Sviluppo Agricolo, a mettere in piedi l’unità di produzione e a preparare e diffondere i prodotti, é da alcuni giorni isolato per decisione delle autorità a causa di casi accertati di contaminazione. In quel villaggio di 600 famiglie, conosciamo gli abitanti quasi uno per uno e la loro situazione ci preoccupa quasi fossimo parenti stretti.

Ad oggi, la situazione generale della contaminazione in Tunisia continua a sembrare sotto controllo. I casi accertati sono 553 al 4 aprile, all’incirca cioè quanto quelli che allo stesso momento registra, ad esempio, la sola provincia di Catania, che, con il suo milione di abitanti (contro gli undici della Tunisia) non è comunque tra le più colpite d’Italia. Ma ormai l’inquietudine sulle prospettive del paese è largamente diffusa.

Inquietudine dovuta solo in parte dalla diffusione del virus, anche se tutti sanno che le misure di contenimento stentano ad essere applicate: in parte forse maggiore ci si inquieta ormai per la situazione sociale e le prospettive economiche.

I segnali sono preoccupanti: negli ultimi giorni due giovani hanno cercato di darsi fuoco a Makthar, una cittàdina di quel Paese interno da cui é nata, con analogo episodio, la protesta del 2011 che in breve si trasformò in una rivoluzione. La ragione del loro gesto é la stessa di allora, la mancanza di lavoro e di prospettive, con la differenza che adesso su queste prospettive pesa anche la contrazione di tutte le attività economiche e delle possibili fonti di entrate anche informali su cui vive buona parte del paese e la maggior parte dei giovani.

Le misure di restrizione per il contenimento del contagio imposte dalle autorità anche con l’uso dell’esercito, al momento in vigore fino al 18 aprile ma che certamente dovranno essere prorogate, non sono più minacciate solo dall’indisciplina di chi sottovaluta il rischio, ma ormai anche da nutriti gruppi di persone che, a dispetto di ogni divieto, hanno iniziato ad assembrarsi davanti gli edifici pubblici per protestare per il blocco delle attività e dei redditi, in assenza, ancora, di interventi concreti di sostegno, o davanti agli uffici postali per chiedere l’erogazione di sussidi annunciati ma ancora non concretizzati.

La vera incognita che pesa sul Paese é quella della crisi dell’economia informale che si calcola rappresenti fino al 40% del PIL. Le microimprese del settore informale, che erano già numerose prima del 2011, sono cresciute oggi fino a un numero stimato tra 4 e 500.000, costituendo la valvola di sfogo contro una disoccupazione soprattutto giovanile che non accenna a diminuire. In certi Governatorati la disoccupazione tra i giovani diplomati e laureati é calcolata ufficialmente al 40%. Secondo una ricerca del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali, i lavoratori impegnati in occupazione “atipiche” rappresenterebbero al 2018 il 55% di tutti gli impieghi, di cui 44% privi totalmente di contratto di lavoro e quindi di sia pur minime garanzie.

Su questi impieghi , l’impatto della crisi attuale durerà certamente nel tempo e si aggiunge a quello sull’economia formale: il turismo, la produzione mineraria e industriale, le esportazioni che stanno fortemente risentendo della situazione.

Il numero che circola sulla stampa delle persone che vedono oggi annullarsi o ridursi fortemente i redditi é di quasi due milioni e mezzo, su una popolazione attiva (occupati e in cerca di occupazione) che, secondo l’Istituto di Statistica, ammonta a 4.2 milioni di persone. La capacità di questi due milioni e mezzo di persone per approvigionarsi in  generi di prima necessità non puo’ superare, sempre secondo la stampa locale, le due settimane. E le due settimane di blocco sono già trascorse.

Il 21 marzo, il capo del governo da poco eletto, Fakhfakh, ha annunciato un pacchetto di misure impegnativo comprendente tra l’altro: 300 milioni di dinari per i lavoratori in “disoccupazione tecnica” a causa del blocco; 150 milioni per le classi sociali più vulnerabili; sei mesi di rinvio dei ratei di credito bancario per chi ha un salario di meno di 1000 dinari al mese e di 3 mesi per le scadenze fiscali delle piccole e medie imprese; 500 milioni di garanzia statale per permettere alle banche di concedere crediti; un fondo di 700 milioni per ristrutturare le imprese sinistrate dalla crisi attuale; 500 milioni in riserve strategiche di farmaci, alimentari e carburanti; blocco del taglio delle forniture di acqua, luce e telecomunicazioni per le famiglie e imprese morose.

Da dove prenderà la Tunisia le risorse per queste misure? Dal trovarle dipenderà la tenuta del Paese dal punto di vista sociale e di un sistema politico e istituzionale da molti guardato come raro esempio positivo nell’ambito del mondo arabo. Un esempio, se lo é, che potrebbe presto essere fortemente a rischio.

Costretta da anni a negoziare le proprie strategie economiche con le organizzazioni finanziarie internazionali in cambio di prestiti, é chiaro che la Tunisia da sola (come del resto la maggior parte dei paesi africani) le risorse per superare questa crisi non potrà trovarle. Dal 2016 il Paese ha in corso un programma di finanziamento del FMI per un totale di 8.27 miliardi di dinari (circa 2.7 miliardi di euro) di cui ha ricevuto all’incirca la metà. Come sempre, il FMI ha chiesto in cambio pesanti ristrutturazioni del sistema economico che prevedono la riduzione della massa salariale e la riduzione degli impieghi pubblici (sembra incredibile, in un Paese ad alta disoccupazione, ma é cosi’…), nonché ulteriori liberalizzazioni degli scambi, come quelle che nel corso dei decenni hanno messo in ginocchio parecchi settori economici interni. L’incontro per sbloccare, sulla base di queste “riforme” la più recente tranche di prestito prevista (circa 700 milioni di dinari, fondamentali per poter avviare il bilancio dello stato nel 2020) era programmato per metà marzo. Ma questa tranche non é arrivata e a metà marzo il governatore della banca centrale ha annunciato che il programma attuale di “aiuto” del FMI sarà concluso, in quanto la Tunisia non ha potuto realizzare la prevista compressione della massa salariale, e che un nuovo programma sarà negoziato subito dopo.

Poi é arrivata la crisi da Covid19 che ha sconvolto le priorità anche a Tunisi. Oggi si parla di un prestito straordinario di 400 milioni di dollari, sempre dal FMI, che sarebbe in discussione per fronteggiare la crisi nell’immediato e sostituire le ultime tranche del piano precedente che non sono state versate e probabilmente non lo saranno. Ma quali saranno le condizioni per questo prestito, se sarà confermato, non é ancora chiaro e i precedenti non lasciano sperare nulla di buono.

Le politiche economiche dominanti continuano a ritenere che le economie deboli, come quella tunisina, per accedere a risorse di appoggio debbano essere ulteriormente indebolite. Forse anche qui è giunto il momento di cambiare rotta, mettere finalmente in soffitta Friedman e von Hayek, che troppi danni hanno già generato in troppi Paesi, e richiamare in servizio in vecchio Keynes.

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