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Paesi di intervento
di Alberto Sciortino
Ad oggi, la temuta esplosione del contagio in Tunisia non si é verificata. I casi accertati hanno da poco superato i mille (di cui circa 250 ancora attivi e solo 11 ospedalizzati), e i decessi la quarantina, che, su oltre 11 milioni di abitanti, fanno della Tunisia una dei paesi meno colpiti dalla pandemia. Certo, si puo’ sempre discutere il fatto che non siano stati effettuati test a tappeto, e quindi un parte dei contagiati sia di fatto sfuggita al rilevamento, ed é sempre presente il rischio di una “seconda ondata”; ma se paragonata ad altre, quella tunisina resta una situazione che non desta al momento eccessive preoccupazioni. Per fare un raffronto, il Belgio, che ha all’incirca la stessa popolazione, registra oltre 50.000 casi e 5.000 decessi.
Confortato da queste cifre, il Governo Tunisino sta iniziando a rilasciare poco alla volta le misure di contenimento. Come in Italia, la prima riapertura di alcune attività é stata effettuata il 4 maggio, e altre saranno riaperte in questi giorni, anche se restano vietate alcune attività anche psicologicamente “sensibili” come i caffé e le moschée.
Il vero problema, e anche il vero motivo della sollecitudine con cui si va verso la riapertura, resta quello delle conseguenze economiche e sociali della crisi indotta da queste restrizioni. Stime prudenti parlano di un effetto di aumento della disoccupazione dal 15 al 19%, calcolato sulle cifre ufficiali che pero’ non sempre raccontano la realtà, sia per le grandi disparità regionali (gli indici medi nazionali in certe regioni dell’interno e del sud possono anche raddoppiare), sia per quelle tra categorie e fasce d’età (tra i giovani con titolo di studio si rasenta da molte parti il 50%), sià perché la forza lavoro complessiva (occupati e disoccupati insieme) risulta sempre sottostimata in un Paese che lascia molte persone, soprattutto donne, al di fuori di questi calcoli.
Le diverse categorie sociali in grado di fare pressione cercano di limitare i danni contando sulle risorse che il Governo ha dichiarato di voler impiegare a questo scopo. Lo fanno gli imprenditori (che, come sempre, brandiscono la minaccia dei licenziamenti) e lo fanno i sindacati, che – al contrario – chiedono di garantire la sicurezza del domani soprattutto a chi già un lavoro lo ha.
Ma la vera questione sociale la pone quell’ampia fetta di popolazione che non é rappresentata in queste categorie: il “settore informale”, il commercio non regolamentato, le attività “inventate” per arrivare a fine giornata, le microimprese al confine tra legalità e lavoro nero. D’altra parte, l’economia che potrebbe andare avanti con i sistemi informatici é un settore limitatissimo: persino le carte di credito sono ancora poco diffuse, mentre i pagamenti online sono impediti da una normativa ancora da adeguare.
Durante il pieno del “confinement” i segnali del malessere sociale si sono già manifestati: proteste, assembramenti si sono verificati per accedere ai sussidi, solo una parte dei quali risultano effettivalente distribuiti, sia per le molte condizioni imposte, sia per la lentezza della “maccchina” amministrativa.
In un Paese, che ad oggi, dalla rivolta del 2011, continua ad essere considerato l’unico caso di successo di transizione nel mondo arabo e che sta ancora completando, dopo ormai quasi dieci anni, l’architettura istituzionale del sistema democratico, restano ancora sottotraccia le questioni aperte dalla rottura con il passato, non solo in termini di giustizia rispetto ai crimini perpetrati dal passato regime, ma adesso a maggior ragione anche in termini di recupero delle risorse che quel regime ha consentito al clan al potere di accumulare, stimate in circa 12 miliardi di dinari (4 miliardi di Euro). Cosi’ come si potrebbe porre la questione dei 9 miliardi di interessi che il sistema bancario ha percepito sul debito dello stato dal 2016 (data in cui é diventata operativa l’indipendenza della banca centrale che, qui, come altrove, non puo’ prestare direttamente al governo). A fronte di queste cifre in qualche modo “scomparse” dall’economia del Paese, le stime più larghe del fabbisogno per uscire a testa alta dalla crisi, senza incorrere in ulteriori trappole di debito, ammontano anch’esse non oltre 9 miliardi di dinari. La transizione verso la democrazia formale e quella verso una vera democrazia economica non dovrebbero essere trattate separatamente, in Tunisia come altrove.
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