17Novembre2020 Saharawi: un popolo pacifico lasciato solo dalla Comunità internazionale

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di Roberto Salustri

In questa crisi globale dovuta all’emergenza sanitaria, non si può correre il rischio di una nuova guerra nel Nordafrica. Chiediamo alla comunità internazionale di non restare a guardare”.

Con grande amarezza ci giunge la notizia che dopo 29 anni di cessate il fuoco è ripreso il conflitto nel Sahara Occidentale, tra il popolo Saharawi e il regno del Marocco. L’attacco è stato sferrato il 13 novembre da parte delle forze marocchine contro una manifestazione pacifica delle donne saharawi che protestavano contro l’apertura di una strada in violazione delle norme internazionali. Una tragedia che non deve passare sotto silenzio. Non vogliamo un’altra guerra. Ci appelliamo alla comunità internazionale e al Governo italiano dopo le tensioni nel Sahara occidentale, culminate gli scorsi giorni con gli scontri di El Guerguerat, dove, secondo quanto riportato dalla rappresentante del Fronte Polisario in Italia, Fatima Mahfud, “il Marocco ha violato gli accordi del 1990 siglati dall’Onu e ha aperto il fuoco contro le proteste pacifiche dei Saharawi”.

Il popolo Saharawi ha scelto da anni la via pacifica per chiedere di essere libero nella propria terra, sollecitando l’intervento dell’ONU. Tutte le manifestazioni sono state pacifiche, sia quelle organizzate nei territori occupati e violentemente represse dal Governo del Marocco, sia quelle organizzate nei territori liberati o in Europa. L’ultima manifestazione è stata organizzata dalle associazioni saharawi per i diritti umani per protestare contro la realizzazione di una strada nella zona di Guerguerat, realizzata per trasportare risorse naturali depredate dal territorio saharawi, in violazione delle normative internazionali, delle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e dei trattati relative al cessate il fuoco. Un tratto, realizzato dal Marocco, che connette i territori occupati del Sahara occidentale attraversando i territori liberati controllati dalla RASD – Repubblica Araba Saharawi Democratica. Lo scopo è quello di arrivare ai mercati dell’Africa occidentale per vendere le risorse naturali. Uno dei rischi di questo canale “commerciale”, che i saharawi hanno denunciato da tempo, è anche il trasporto di tonnellate di droghe prodotte in Marocco per venderle in Africa ed Europa. Traffico che l’esercito saharawi sta da tempo combattendo.

Tante associazioni italiane hanno avviato progetti di cooperazione per migliorare le condizioni di vita nei campi profughi Saharawi per le scuole, per il lavoro, per le donne e in campo sanitario. Pensiamo ai nostri cittadini che hanno ospitato negli anni passati i bambini, i ‘piccoli ambasciatori di pace’, nelle loro case in estate, quando nel deserto la temperatura è troppo alta per viverci. ARCS è impegnata in un grande progetto di agroecologia nel deserto, una rete di orti familiari che utilizza i principi dell’agroecologia e l’energia solare. Un altro intervento, ideato dall’EcoIstituto RESEDA onlus, è “Un albero per ogni mina” sullo sminamento delle zone liberate, dove per ogni mina eliminata (c’è ne sono sette milioni vendute dall’Italia) si pianterà un albero.

Qualche passo in avanti era stato fatto dopo la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2018. Ma non è bastato. Ci uniamo all’appello della rappresentante del Fronte Polisario per chiedere un calendario chiaro che porti al referendum per l’autodeterminazione dei Saharawi. In questa crisi globale dovuta all’emergenza sanitaria, non si può correre il rischio di una nuova guerra nel Nordafrica.

Chiediamo alla comunità internazionale, all’Europa e al Ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale, Luigi Di Maio, di non restare a guardare.

È dal 1975 che il popolo Saharawi vive nei campi profughi algerini e nel deserto, al di là di un muro di più di 2 mila chilometri costruito dal Marocco per occupare le zone economicamente più importanti. Il Piano di pace siglato dall’Onu nel 1990, oltre ad aver posto fine alla guerra, chiedeva un referendum per l’autodeterminazione che però in 29 anni non c’è mai stato.

(Nelle foto l’accampamento saharawi attaccato dalle forze marocchine.)

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