03Dicembre2020 Beirut: “non farsi abbattere dal sistema”

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di Giulia Gerosa

La Beirut che avete conosciuto qualche mese fa non esiste più, scordatevela”. Diverse persone, colleghi o amici, ci hanno presentato così la città dove siamo approdati solo pochi mesi fa, a febbraio, e che abbiamo lasciato subito a marzo a causa del dilagare della pandemia.

L’entusiasmo per il nostro ritorno a novembre, voluto e atteso da tempo, si è dovuto scontrare con una realtà cambiata e stravolta, non solo dal covid-19, ma anche e soprattutto dalla crisi economica ulteriormente peggiorata dal lockdown imposto a marzo, e dalla tragedia delle esplosioni al porto di Beirut, lo scorso 4 agosto.

A un primo giro in città e nei quartieri maggiormente investiti da questo susseguirsi di sfide e tragedie che hanno riempito di sofferenza un Paese e un popolo già molto provati, l’impressione che si avverte è di avere tutte queste definizioni – crisi economica, fallimento dello Stato, popolazione allo stremo – esattamente davanti agli occhi. Ai nostri occhi che cercano quella strada, quel bar o quel negozio di manaoush per cercare dei riferimenti, per capire se si è davvero nella stessa città vissuta con vivacità all’inizio dell’anno.

La città in qualche modo è rimasta, e a tratti, in certi quartieri, sembra sia cambiato ben poco, stessa indifferenza a quel che accade e alla situazione che peggiora. Ma l’atmosfera che si respira non mente, un’aria cupa e sofferente soffia su Beirut. I quartieri più danneggiati sono pieni di gente che lavora, arrabatta materiali per riparare il possibile, pulisce pavimenti ancora pieni di vetri e macerie. ‘Our places are destroyed, but we are not” (i nostri posti sono distrutti, noi invece no), questo si legge sui muri di Armenia Street.

Il quartiere di Karantina, un’area già ad alta vulnerabilità sociale, ha risentito enormemente delle esplosioni al porto, che dista poche centinaia di metri. Camminando tra le sue strade polverose, è tutto un via vai di lavoratori e volontari che trasportano pietre, travi di legno, pezzi di arredamenti, tentando di creare uno spazio per poter, lentamente, ricostruire.

Dando una mano ai volontari, abbiamo avuto modo di toccar con mano il disastro, ma anche la forza che ancora c’è, soprattutto nei giovani, per rimettere in piedi il quartiere.

All’inizio della giornata di lavoro, dopo essersi divisi i compiti e le aree di competenza, fa un certo effetto cantare tutti insieme, libanesi e non, l’inno nazionale che invoca l’unità del popolo in questo fazzoletto di terra. L’applauso commosso della signora al primo piano di un palazzo tappezzato di ponteggi riempie ancor più di significato il duro lavoro che attende i volontari, presenti a Karantina incessantemente a partire da subito dopo l’esplosione.

Qui – ci dicono – ad agosto non si poteva neanche camminare, troppe macerie in giro. Alla domanda riguardo eventuali aiuti da parte di compagnie pubbliche o statali almeno nella rimozione delle macerie, ci risponde un sorriso amaro: qui ci siamo solo noi.

Quando ci spostiamo nel ripostiglio dell’ennesima casa da ripulire, per sgombrare tutto il materiale rotto o pericolante creaimo una catena di montaggio per rendere il lavoro più fluido e meno pesante possibile. Ad alleggerire l’atmosfera c’è anche la cassa bluetooth di una delle coordinatrici dei volontari che diffonde la voce immancabile di Fairouz, insieme a vari successi internazionali. Nel momento in cui però parte ‘Big City Life’, il collegamento tra l’impegno dei ragazzi, le condizioni in cui versa Beirut e il verso pre-ritornello è istantaneo: ‘don’t let the system get you down’.

In Libano c’è chi ancora ci prova a non farsi abbattere dal sistema, ma la rassegnazione di molti e l’emigrazione di chi ha potuto abbandonare il Paese sono sintomi ben visibili di una situazione tragica e dall’evoluzione incerta.

Per chi volesse sostenere questo lavoro di ricostruzione, basta una piccola donazione alla campagna #BeirutCalling

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