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Paesi di intervento
di Giovanni Baccani, volontario Servizio Civile Universale
Siamo ormai tornati in servizio sul campo da poco più di venti giorni. I lavori per il completamento della fase finale del progetto SOUFF procedono spediti, ed è nostro compito supportare i progressi quotidiani fino al termine della nostra esperienza di servizio civile nella prossima primavera.
Tuttavia, parte della nostra esperienza in loco è anche a quella di seguire gli eventi e gli avvenimenti nel paese ospitante. Infatti, per la cooperazione internazionale rimane cruciale l’aggiornamento costante sull’attualità nazionale e locale come elemento da tenere in considerazione nella fase di ideazione e progettazione degli interventi sul campo.
Oggi mi occuperò di due temi nevralgici che hanno avuto una grande risonanza nell’opinione pubblica senegalese, specialmente tra ottobre e novembre: la pesca e l’emigrazione.
Il primo ha conquistato le prime pagine a seguito dello svilupparsi di quella che è ancora definita come una ‘malattia misteriosa’ che ha afflitto centinaia di pescatori della costa senegalese (secondo alcune fonti il numero totale avrebbe superato il migliaio) provocando reazioni cutanee con pustole e bubboni sparsi tra braccia, viso e in alcuni casi anche sui genitali. Per il momento è stato escluso che la trasmissione sia virale, il che, scongiura il diffondersi di un’epidemia proprio mentre il mondo affronta la pandemia da Covid-19. Dall’altro lato, aumentano in modo vertiginoso i report sulle morti di migranti che avvengono nell’Oceano Atlantico. La quasi totalità di essi è di origine senegalese. Seppur in apparenza argomenti distinti, la pesca e l’emigrazione sono legati da un sottile filo che li unisce: la pesca è fonte di sostentamento, occupazione, lavoro ossia alcuni dei motori dell’emigrazione. Se la prima viene messa in pericolo o subisce momenti di crisi ha dei riflessi che possono spingere sulla seconda. Prima di approfondire il rapporto causa-effetto tra pesca ed emigrazione, mi soffermo su i dati nefasti che descrivono la situazione del flusso migratorio atlantico.
Secondo lo IOM (L’Organizzazione Internazionale per i Migranti sotto l’egida dell’ONU) nel mese di ottobre e novembre del 2020, si sono registrate più di 500 morti di migranti a largo delle coste dell’Africa Occidentale. Il dato, viene precisato, è una stima al minimo di quelle che sono le morti accertate, che si suppone sia minore del dato reale delle morti effettive. Di per sé è sconcertante, e fa riflettere che nel solo 2019 le morti registrate sono state 210. Dunque l’aumento va oltre il 100%. Il dato inoltre certifica che la ‘rotta atlantica’ non è una novità del 2020. La rotta è da diversi anni, se non da decenni, un cammino marittimo intrapreso dai migranti per raggiungere l’Europa. Probabilmente, è uno tra i meno utilizzati se comparato con le rotte Mediterranee passanti per Marocco e Libia oppure quelle continentali attraverso i Balcani; ciononostante, ultimamente registra un’affluenza maggiore. La peculiarità di quella che si può definire come una nuova ondata migratoria dall’Africa Occidentale è la destinazione di arrivo dei migranti, che rimane essenzialmente l’Europa, ma che trova come punto di approdo non più l’Europa Continentale, bensì quella insulare: infatti, il tentativo dei migranti è quello di arrivare alle Isole Canarie, il territorio europeo più vicino alle coste dell’Africa Occidentale, come mostrato nella mappa fornita dallo IOM.
Perché si preferisce in questo momento spostarsi via mare e non via terra?
Considerando che seppur più estenuante, il cammino via terra offre meno rischi dal punto di vista geografico, non dovendo attraversare le impervie onde dell’Oceano Atlantico su imbarcazioni non predisposte a tali attraversamenti. La risposta forse la si può trovare in parte nel contesto geopolitico attuale. La pandemia da Covid-19 ha innegabilmente avuto un impatto sulle politiche attuate dai governi nazionali, non solo esclusivamente legate alla sanità o all’economia in senso stretto. La necessità per tutti è stata quella di ridurre la mobilità, e in questo ambito rientrano in parte i movimenti migratori, che risentono delle chiusure dei confini terrestri. I migranti in partenza dal Senegal in questo momento trovano sulla propria rotta terrestre le frontiere chiuse in Mauritania, la situazione di tensione nel Sahara Occidentale e da ultimo i controlli con eventuali respingimenti in Marocco, a seguito del rafforzamento del partenariato tra Unione Europea e il paese dell’Africa Settentrionale in materia (Cit. UE). Inoltre, il Senegal si presenta attualmente come il paese più stabile politicamente e socialmente dell’area dell’Africa Occidentale. Il paese confinante ad est (Mali) e quelli limitrofi che si trovano sulla rotta per l’approdo in Libia (Burkina Faso e Niger) soffrono al momento di violenza e terrorismo diffuso, il che scoraggia il loro attraversamento da parte dei migranti, data anche la pericolosità dell’attraversamento della Libia. Di conseguenza, si prefigura come unica alternativa l’uscita via mare dal Senegal. Come visibile nella cartina, il viaggio da affrontare per arrivare alle Isole Canarie prevede un itinerario di lunghezza superiore ai 1500 Chilometri, equivalente a 832 miglia nautiche. Questi viaggi della speranza ricordano a tutti gli effetti tutti quelli intrapresi dalle coste tunisine in direzione delle acque territoriali italiane e maltesi. La differenza però è che la Tunisia dista ‘soli’ 75 chilometri dalle coste della più vicina Pantelleria, ossia all’incirca 40 miglia nautiche. Il tragitto Atlantico dunque corrisponde a 20 volte quello Mediterraneo, il che racconta la disperazione di coloro che partono e l’alta incidenza di coloro che purtroppo non arrivano. E’ anche giusto però sottolineare che non tutti sono a conoscenza di ciò a cui vanno incontro, o alcuni ne sono consapevoli, ma ricevono una spinta tale da fare l’unica cosa che rimane da fare: partire. E questo non avviene in un luogo qualsiasi della costa senegalese, bensì da una città in particolare, M’bour. In essa, la popolazione in gran parte si dedica ad una specifica attività: la pesca.
M’Bour è una città costiera a 83 Km a sud di Dakar. E’ la seconda città costiera per numero di abitanti e possiede il secondo porto più grande del paese, poiché la metropoli di Dakar possiede tutti i primati in termini di estensione. In generale, il settore ittico è molto importante per il Senegal: secondo il sito Trading Economics, nel solo 2019 il paese ha esportato un valore pari a quasi 500 milioni di dollari di prodotti ittici, a cui va aggiunto il consumo nel mercato interno. Secondo USAID, il settore offre opportunità di lavoro a 600.000 persone che costituiscono il 17% dell’occupazione in Senegal. Si stima che il 40% del pescato totale della regione di cui fa parte M’bour (Thies) provenga dalla città stessa e che il settore ittico dia lavoro ad una grande parte della popolazione. Direttamente coinvolti sono le decine di migliaia di pescatori locali a lavoro con le piroghe, che in seguito raccolgono il pescato da destinare alla produzione industriale, al mercato cittadino gestito in prevalenza dalla popolazione femminile, e che diversi lavoratori siano coinvolti indirettamente come quelli che lavorano per l’industria del ghiaccio e i trasporti per le consegne nell’entroterra e verso l’estero. In sostanza, la pesca è un’attività vitale per la popolazione di M’bour. L’economia del Senegal negli anni scorsi è stata tra le più fiorenti, specie nel panorama delle economie africane. Tuttavia, le previsioni per il 2020 e gli anni avvenire stimano una forte frenata e un calo della produzione, come del resto per la stragrande maggioranza del pianeta.
I dati suggeriscono che la pandemia dal punto di vista sanitario non abbia avuto effetti così pesanti nel continente africano se paragonati con quelli delle Americhe e dell’Europa, fermo restando che il Covid-19 si è diffuso e la sua diffusione persiste ciononostante.
A preoccupare da subito sono stati i risvolti economici sulla popolazione. Secondo il Dr. Babacar Sené, esperto senegalese del settore ittico alimentare, intervistato da Agrilinks, le misure adottate dal governo senegalese per contenere la pandemia, hanno influito sulle rendite della pandemia. Nello specifico le restrizioni alla mobilità delle persone hanno coinvolto anche i pescatori che erano impossibilitati a svolgere le loro attività lavorative tra le ore 22 e le 5 (coprifuoco), orari importanti per la pesca che suole svolgersi frequentemente durante la notte. Questo fattore ha determinato un’inflazione sul prezzo del pescato, che è arrivato addirittura ad aumentare per tre volte il prezzo medio originario. La scarsità dell’offerta di pesce fresco generata si è poi riflessa sul processo di trasformazione, come salatura, affumicatura, essiccazione, e fermentazione a cura di imprese e associazioni a partecipazione femminile. Il quotidiano spagnolo El Pais ha effettuato un reportage sulle condizioni attuali nella città di M’bour.
Un altro aspetto che emerge come conseguenza del blocco delle frontiere ancora in essere in Senegal, è la mancanza delle entrate del settore turistico. Operatori locali lamentano l’assenza dei turisti in una località che notoriamente era frequentemente visitata da turisti europei e nordamericani, ma che adesso soffre della chiusura delle frontiere, per ciò che riguarda il consumo a livello locale e gli indotti derivanti da attività di catering, soggiorno e souvenir. Tutte le attività coinvolte perciò rimangono chiuse. Ad aggravare questa situazione per i pescatori locali, definiti ‘pescatori artigianali’, poiché utilizzano imbarcazioni tradizionali quali le piroghe, funzionali per la pesca in prossimità della costa ma inadatte per quella in alto mare, contribuisce la presenza dei pescherecci industriali. Alcuni di questi, come sostenuto da Greenpeace Africa, operano grazie agli accordi di pesca siglati dall’Unione Europea con il governo senegalese tramite un compenso fisso elargito dagli europei. In concomitanza, una moltitudine di imbarcazioni che operano sotto bandiera senegalese, sono in realtà gestite da compagnie straniere quali turche, cinesi o europee stesse. La presenza di più di 200 pescherecci stranieri e più di 20.000 imbarcazioni locali ha portato ad una situazione di sovrappesca nelle acque territoriali senegalesi, con un raccolto maggiore in favore delle imbarcazioni industriali che posseggono una maggiore capacità e potenzialità tecnologica. Tutto ciò va a discapito della popolazione locale che paga il prezzo della scarsità di pesce. Ed ecco che dunque l’insieme di questi fattori porta i locali, specialmente i giovani, a decidere di abbandonare la terra natia per cercare un futuro diverso cercando di raggiungere le coste spagnole. La vibrante città di M’bour si è trasformata in un porto fantasma dal quale i locali e altri emigranti in arrivo da altre zone del paese salpano verso nord.
Nel frattempo, a Thiaroye-sur-Mer, località costiera situata nella banlieue di Dakar, specificatamente a lato di Pikine, più di 1000 pescatori hanno sofferto di una dermatite ancora non bene specificata dopo essere entrati in contatto con l’acqua del mare. Molte sono state le speculazioni a riguardo: dagli sversamenti delle industrie nel settore chimico presenti in loco, a quelli di navi di passaggio sospette fino a presunte presenze di materiale radioattivo nelle acque costiere. Le ultime notizie al 27 novembre riportate da 20MinutesFR sono quelle relative alle dichiarazioni del Ministro della Salute senegalese, riguardo alle condizioni dei pescatori afflitti dalla malattia che fortunatamente non hanno avuto ulteriori complicazioni. Ci sono poi quelle del Ministro dell’Ambiente che rassicurano sulla validità degli esami tossicologici che non hanno riscontrato presenza di elementi tossici e che garantiscono l’edibilità dei prodotti ittici. Le cause al momento si concentrano su l’elevata presenza di alcune alghe. Il motivo sarebbe dunque biologico. Lungi da noi mettere in dubbio la credibilità delle istituzioni locali, ma rimangono impresse nella mente le immagini delle catastrofi naturali che sfortunatamente accadono di tanto in tanto e che spesso riguardano uno degli ecosistemi più preziosi, ossia quello marino. La speranza dunque è che sia stato un episodio isolato di reazioni biologiche, ma in realtà non conosciamo fino in fondo gli effetti dello sfruttamento degli oceani. Sicuramente, l’episodio ha avuto effetti non solo sull’economia delle famiglie dei pescatori, ma su tutto il mercato ittico che ha risentito oltre che del calo dell’offerta dovuto al divieto di navigazione in quelle acque anche del calo della domanda visto lo scetticismo e la riluttanza della popolazione locale nel consumare pesce nel breve periodo.
La questione migratoria rimane cruciale in ogni caso nel contesto senegalese, forse al momento più pressante sul paese di arrivo, la Spagna. A seguito dell’arrivo di più di 18.000 migranti sulle coste canarine, le isole si sono predisposte con accampamenti e tendopoli per il primo soccorso. Le retoriche anti-immigrazione si sono fatte sentire immediatamente dall’opposizione, che in tempo di pandemia sottolineano come la precedenza nell’investimento delle risorse debba avvenire sulla crisi sanitaria ai danni della popolazione locale invece che sulla crisi migratoria. Da sottolineare che non è una peculiarità della politica spagnola, bensì un leitmotiv già sentito anche in altre latitudini. Come riportato da El Pais, recentemente la Ministra degli Esteri si è recata in visita presso la Presidenza del Senegal per riattivare gli accordi di rimpatrio dei senegalesi in arrivo illegalmente sulle coste spagnole. Inoltre la Spagna metterà a disposizioni imbarcazioni ed elicotteri per sorvegliare l’area costiera in collaborazione con la Guardia Costiera senegalese. Queste pratiche ricordano quelle fallimentari messe in atto dall’Italia con la Libia. Il paese di arrivo che scarica su quello di partenza il controllo delle proprie frontiere. Non sappiamo se l’accordo tra Spagna e Senegal funzionerà in modo tale da sconfiggere il traffico di essere umani e da scoraggiare i migranti da un viaggio estremamente pericoloso. Quello che sappiamo è che queste misure corrispondono ad una cura. Agli sbarchi, alla povertà e al malessere si possono trovare soluzioni. Alla morte no. Per essa si può provare per quanto possibile a trovare una forma di prevenzione. In questo caso le politiche europee possono dare una risposta. Invece di firmare accordi economici sotto la bandiera dell’UE per poi lasciare la gestione delle politiche migratorie al solo paese che ne viene coinvolto, sarebbe più opportuno che si firmassero degli accordi che tengano conto degli equilibri ecologici delle aree in questione. Specialmente laddove essi si dimostrano fragili. Questo non soltanto per evitare le perdite umane, ma anche per non vanificare gli sforzi della cooperazione internazionale. Italia, Spagna e così l’Unione Europea investono molto in Africa Occidentale e specialmente in Senegal per progetti di sviluppo sostenibili mirati a cercare di garantire un futuro alle giovani generazioni, per non essere risucchiate nel vortice della povertà, violenza e dello sfruttamento della migrazione. Che sia in un momento di ordinarietà, o in uno di crisi, è necessario che le istituzioni europee adottino misure coerenti agli sforzi quotidiani di cooperanti, partner e beneficiari che tutti i giorni lavorano per un futuro migliore.
Bibliografia:
https://elpais.com/espana/2020-11-20/mbour-la-costa-de-los-naufragios-olvidados.html
https://www.consilium.europa.eu/it/policies/migratory-pressures/
https://tradingeconomics.com/senegal/exports-by-category
https://www.agrilinks.org/sites/default/files/resource/files/senegal_file.pdf
https://www.agrilinks.org/post/covid-19-jeopardises-artisanal-fish-supply-and-trade-senegal
https://it.wikipedia.org/wiki/M%27bour
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