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Paesi di intervento
di Giulia Gerosa e Leonardo Sartori
È impossibile recarsi a Chatila senza avere in mente almeno un paio di preconcetti sul campo palestinese più (tragicamente) conosciuto del Libano.
Dal nostro ufficio, in circa 20 minuti di service (taxi collettivo, il sistema di trasporto più agevole a Beirut), ci fermiamo sotto uno dei ponti presenti sulla via per l’aeroporto, il ponte di Sabra. L’aria che si respira, già fortemente inquinata in città, qui risulta ancora più pesante.
Al ponte attendiamo Majdi, punto di riferimento per la comunità di Chatila e persona dalle mille idee ed energie, che vuole portare il suo quartiere fuori dai quattro bordi che lo delimitano: la gente fuori – ci dice – deve andare oltre l’immagine che ha di questo posto, e venire a conoscerlo.
Anche per noi questa prima camminata lungo la strada principale e tra i vicoli bui del quartiere ci apre gli occhi sulla realtà di Chatila: un quartiere ad alta vulnerabilità, figlio della marginalizzazione che a livello giuridico e politico, e dunque sociale, lo contraddistingue da 70 anni.
Negli anni, la composizione demografica del quartiere è mutata con il mutare degli eventi che hanno segnato il Medio Oriente. Per quanto la maggior parte degli abitanti rimangano palestinesi “autoctoni” del quartiere, nell’ultimo decennio Chatila è diventato rifugio per molte famiglie siriane, ma anche sudanesi, pakistane o irachene.
Majdi non vuole travisare la realtà, è consapevole delle difficoltà che ci sono e che continuano ad aggravarsi, soprattutto negli ultimi tempi, con una crisi economica senza apparente soluzione e le difficoltà dovute all’epidemia di COVID-19 che in Libano sta mettendo sotto fortissima pressione ospedali e personale sanitario.
Per capire i problemi di Chatila, però, non basta aggrapparsi ai problemi dei tempi più recenti, ma bisogna andare più a fondo e iniziare a guardare le case che ci sono qua, e che diventano sempre più alte e più instabili, perché i palestinesi non hanno il diritto di acquistare beni immobiliari e devono quindi costruire su quel poco che già c’è. Le costruzioni in verticale si inclinano man mano che crescono in altezza, fino quasi ad unirsi ai palazzi che stanno di fronte. I piani più bassi di questi edifici non godono di alcuna luce, paradossale in un Paese dove c’è il sole dieci mesi all’anno, ma si gonfiano solo di umidità e acqua, quella che filtra dalle pareti o dalle cisterne per l’acqua corrente, che non sempre raggiunge le abitazioni.
Fallimentare il tentativo di creare un sistema idraulico capace di raggiungere la maggior parte delle abitazioni di Chatila. Adiacenti ad alcuni edifici, infatti, Majdi ci fa notare gli scheletri di un sistema di pompaggio progettato per collegare la riserva d’acqua principale del campo direttamente alle unità abitative. Di quel progetto, vittima di gravi errori ingegneristici, rimangono solamente dei tubi mozzati, che spuntano come fiori tra i rifiuti abbandonati sul ciglio della strada.
I cavi elettrici tutti intrecciati, spesso scoperti, contornano e attraversano ogni stradina, in rischiosa vicinanza alle perdite d’acqua che dipingono i muri e le vie di Chatila. Sono frequenti gli incidenti, talvolta mortali, causati dai quadri elettrici ronzanti esposti all’acqua.
Eppure, tra 10.000 e 22.000 persone vivono qui e qui rimangono incastrate: sia da bambini, poichè l’unico sistema scolastico a cui si abbia accesso è quello garantito dall’UNRWA (agenzia ONU per l’assistenza ai palestinesi), sia da adulti, per l’altissimo tasso di disoccupazione.
I pochi che terminano il percorso scolastico, e motivati a continuare gli studi, sono costretti a fare i conti con tasse universitarie inaccessibili, ma soprattutto con il fatto che i Palestinesi non hanno accesso alla maggior parte delle professioni specializzate, inclusa quella del medico.
Y., ragazzo poco più che adolescente, ci racconta di aver lasciato la scuola a 16 anni perché l’istruzione non lo avrebbe comunque portato ad alcuna possibilità di lavoro e questo ha ‘ucciso’ le sue ambizioni, i suoi sogni. A lui è bastato – dice – imparare a sopravvivere alle condizioni del quartiere, ad affrontare una quotidianità ormai normalizzata.
È ancora sopportabile accettare questi discorsi?
Per le persone come Majdi sicuramente no. E sa che il cambiamento deve partire dai giovani, e soprattutto dalle ragazze. ‘Se rafforzi la donna, rafforzi la famiglia. Se rafforzi la famiglia, rafforzi la comunità’, questo è il suo messaggio. Da questa visione è partito il progetto di inclusione giovanile attraverso lo sport: la squadra di basket femminile Palestine youth club è una di queste realtà, che durante le prime restrizioni dovute al lockdown è diventata anche squadra al servizio della comunità. Attraverso le ragazze sono stati infatti confezionati e distribuiti beni di prima necessità per le famiglie più bisognose del campo.
Anche e soprattutto questo persegue il progetto di aggregazione sportiva: avvicinare le ragazze a uno stile di vita attivo e sano che, di riflesso, alimenti nuove prospettive e ambizioni nei giovani del quartiere, tenendo però stretti i legami con la propria comunità di appartenenza.
I ragazzi di un’altra realtà molto vivace di Chatila, lo Studio el-Moakheem (lo studio del campo), organizzano video e interviste all’interno del campo con lo stesso intento di Majdi: far conoscere la realtà interna e portarla all’esterno attraverso le parole di chi ci vive, ma anche di chi ci viene per conoscere meglio. Le iniziative non mancano, le risorse – spesso – sì.
Chatila va vista e ascoltata, e i 70 e più anni da quando il campo è stato costruito non devono essere ragione sufficiente per sfocare la nostra vista dai suoi problemi e le sue potenzialità, ma anzi essere pungolo costante per agire e supportare le tante idee che da qui prendono vita. La nostra intenzione è di costruire insieme alle realtà locali nuove sinergie per supportarli nel loro difficile lavoro quotidiano: come ARCS non vi lasceremo soli.
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