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Paesi di intervento
di Gaia Bendinelli, volontaria Corpi Europei di Solidarietà
Mi ritrovo a scrivere queste prime righe avvolta dall’aria densa e profumata dell’estate greca, a poco più di una settimana dal mio arrivo a Ioannina. Ogni giorno qui è una tempesta emozionale e creativa, la voglia di fare e l’entusiasmo sono tanti, e le idee affollano la mia testa, infervorata da una rinnovata spinta vitale. Ad ogni sorriso dei ragazzi, il mio cuore scoppia di gioia e d’amore, quello vero, riportandomi alla mente il motivo per il quale mi trovo in questa terra così antica, primordiale, madre arcaica dell’Occidente.
“Il faut cultiver notre jardin”, scriveva Voltaire. E dopo tanti anni passati sulle sudate carte, ho sentito il bisogno di coltivare il mio giardino. Ho deciso quindi di catalizzare le mie energie e dedicare il mio tempo ad un progetto in cui credo intimamente, e che cercavo da tempo. Cuore pronto e zaino in spalla, nel giro di un paio di giorni sono stata selezionata e sono partita per la Grecia, in qualità di volontaria internazionale tramite i Corpi Europei di Solidarietà. Qui sono parte del team dei volontari dello Youth Center of Epirus (YCE).
La mia attività principale consiste nel recarmi, con una cadenza di circa tre volte a settimana, presso la struttura di accoglienza per minori non-accompagnati richiedenti asilo Agios Athanasios. Quest’ultima si trova in un minuscolo villaggio tra le imponenti montagne dell’Epiro, immersa in una straordinaria quiete, spezzata solo da qualche latrato in lontananza.
I ragazzi che vi abitano hanno tra i 12 e 17 anni, e provengono da terre così lontane e lacerate dalla guerra che non sappiamo nemmeno più come immaginarle, se non come un ammasso di rovine: Siria, Afghanistan, Kurdistan, Pakistan e Iran. Sulle loro spalle pesa un passato difficile e un futuro incerto, alla mercé della burocrazia e della benevolenza di quelli che dovrebbero accoglierli con le braccia aperte e gli occhi gonfi di pietà.
In quanto volontari, il nostro ruolo consiste nell’addolcire il loro presente e contribuire a seminare i germogli del loro futuro. Difatti, conduciamo con loro workshop di educazione non-formale, per aiutarli a sviluppare le famose soft skills che tanto aiutano ad integrarsi, ma anche per spezzare il grigiume delle loro giornate, che si consumano nell’inesorabile attesa di accedere allo step burocratico successivo.
Queste attività ci avvicinano, e sorpassano le difficoltà comunicative e le differenze culturali che pur esistono tra di noi. A volte capirsi è complicato, e alla lingua universale dei gesti si accompagna qualche timida e mal pronunciata parola in urdu, in farsi, in arabo, e chi più ne ha più ne metta. Ogni mio piccolo sforzo di accedere al loro universo linguistico e, necessariamente, culturale, è ripagato da ampi sorrisi e tenere risate. Perché, in fondo, io sto facendo per loro quello che loro fanno per me: parlare una lingua che non è nelle mie corde. Un gesto così semplice per sentirsi simili e, alla fine, non così lontani da casa.
Parallelamente, creo per YCE diversi contenuti digitali, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica su diverse tematiche relative alla migrazione. In particolare, in questi giorni mi sto dedicando alla creazione di un video esplicativo sulla situazione dei minori non-accompagnati richiedenti asilo in Grecia. Inoltre, assieme agli altri volontari, sto organizzando un evento per le vie della città in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. Questo lavoro dal carattere fortemente divulgativo ha lo scopo di rendere più accessibile quelle tematiche che sono ancora troppo messe da parte in un paese che è crocevia di così tante gambe.
Ritengo il mio operato qui a Ioannina così intenso e profondo da ritrovarmi a pensare che forse sia l’unica cosa davvero importante che abbia mai fatto. Ogni volta che ho la fortuna di potermi connettere emotivamente coi ragazzi, riscopro anche me stessa. Vedo in loro l’incarnazione della speranza, della forza titanica, della vulnerabilità, dell’attaccamento viscerale alla vita.
Se alcuni di loro, a causa del trascorso doloroso, sono teste mature in corpi acerbi, altri invece conservano ancora quella gioia e quella spontaneità puerile di cui ancora vi è strascico nell’adolescenza. Ciò che accomuna tutti e 37 i ragazzi è solo ciò che li ha spinti fino alle porte dell’Europa, e cioè l’auspicio che il futuro, per quanto incerto, sia meglio del passato o del presente che il loro paese avrebbe potuto offrirgli.
Pelle dura, mente temprata da mille dolori, anime increspate e sospinte dalla speranza di ritrovarsi in un posto qualunque, ma in cui sentirsi sicuri, fantasticando di potersi ricongiungere coi propri familiari, in questo mondo o nell’altro. E, in fondo, la speranza che questo mondo possa diventare un posto migliore e più giusto. Ma soprattutto la convinzione che questa promessa fatta a sé stessi non sia solo una chimera.
Se è vero che la prima impressione è quella che conta, questi ragazzi forse insegneranno a me anche più di quanto io possa insegnare loro. Che il mio giardino è in fiore e il vento ne sta trascinando i pollini in ogni angolo della terra. Che le loro speranze sono anche le mie, e che al termine dei miei sei mesi di volontariato sarà già cresciuta in me un albero secolare che nessuna tormenta potrà sradicare.
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