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Paesi di intervento
di Alberto Sciortino
I fatti sono abbastanza chiari. Quello che non è chiaro è l’esito che prenderà questa nuova partita del percorso tunisino.
I fatti. La rabbia popolare montava ormai da tempo. A dieci anni dalla rivoluzione, se si escludono le libertà politiche conquistate cacciando Ben Alì, nessuna delle aspirazioni al cambiamento ha avuto risposte concrete. Prima fra tutte, la situazione delle classi più disagiate. Le differenze sociali tra i ceti, tra le regioni costiere e l’interno, tra occupati e disoccupati sono ancora tutte lì, se possibile ulteriormente aggravate e certamente esacerbate dalla pandemia da Covid e dalle ambivalenti misure prese per contrastarla. A fronte di queste mancate risposte, i tunisini hanno visto rapidamente degradare la qualità (già bassa) dei servizi pubblici: una pubblica amministrazione sempre più paralizzata e paralizzante, un paese devastato da una gestione inesistente dei rifiuti (non c’è tunisino che non ricordi di come “prima” il Paese fosse pulito: il che è ben lontano dall’essere vero, ma i livelli raggiunti oggi sono oltre i limiti dell’emergenza sanitaria), l’istruzione nettamente divisa per categorie di reddito, con quella pubblica costretta a continuare a sformare diplomati con scarse competenze e ancor minori prospettive occupazionali. Ultimo, in ordine di tempo, il collasso del debole sistema sanitario pubblico di fronte a una pandemia ormai fuori controllo, mentre le cliniche private hanno fortemente protestato appena si è ipotizzato di requisire le loro preziose strutture per cercare di far morire un pò meno gente.
A gennaio, decimo anniversario della rivoluzione, il governo aveva impedito fisicamente alla gente di scendere in piazza, anche con la scusa della pandemia. La polizia aveva eseguito gli ordini del governo e il solo risultato è stato l’arresto di alcune centinaia di giovani che nonostante tutto avevano animato proteste, specie nei quartieri più poveri di Tunisi.
Domenica 25 luglio, anniversario della Repubblica, non è stato così. La ricorrenza è stata occasione per numerose manifestazioni in tutto il Paese, che hanno assunto rapidamente forti connotati di protesta verso la classe politica e soprattutto verso il principale partito, gli islamisti detti “moderati” di Ennahdha, che erano al contempo i principali favoriti dell’esito della rivoluzione del 2011 ma anche ormai largamente identificati come i primi responsabili dei fallimenti successivi, con l’aggravante di posizioni politiche di attacco ai diritti delle donne e con quella dei forti sospetti di relazioni pericolose con il fenomeno terroristico e di connivenza negli omicidi politici degli anni post-rivoluzionari, quando alcuni esponenti della sinistra che avrebbero potuto “rovinare” il nuovo corso furono assassinati.
Questa volta le manifestazioni sono state lasciate libere di esperimersi e persino di attaccare le sedi del partito islamista e questo stesso fatto non può passare inosservato. Sull’onda delle proteste di piazza, il Presidente della Repubblica ha riunito i vertici militari e della sicurezza e preso le decisioni che sono ormai note: sospensione dell’attività parlamentare, scioglimento del governo, accentramento su sé stesso dei poteri di governo e di quelli giudiziari, evidenti minacce ai parlamentari (sospensione dell’immunità, divieto di espatrio e pare che il primo ministro sia stato anche brevemente arrestato). Il tutto invocando quell’articolo 80 della Costituzione che invece prevede che in casi d’emergenza il Parlamento si riunisca in seduta permanente.
La tensione a quel punto non poteva che crescere rapidamente. Grandi manifestazioni di sostegno al presidente nella notte e lo stesso presidente che si concede un bagno di folla nella centralissima avenue Bourguiba di Tunisi, a rinsaldare il suo presunto legame con le rivendicazioni popolari. Proteste e persino minacce da quella parte del ceto politico più vicina agli islamisti, ma anche da parte di chi vede nel comportamento del Presidente gli elementi di un colpo di stato di fatto. Il leader politico di Ennahdha e Presidente del Parlamento, Ghannouchi, ha subito sottolineato la situazione presentandosi alle quattro di notte davanti i cancelli della Camera dei Rappresentanti e facendosi quindi impedire l’accesso dall’esercito, di fatto rivendicando così il ruolo di garante della legittimità costituzionale.
Detto questo però, le preoccupazioni per le prospettive sono tutte aperte. Dove vuole arrivare il Presidente della Repubblica, Kaïs Saïed? Eletto con un forte mandato popolare di protesta verso il ceto politico post rivoluzionario, ma su posizioni politiche fortemente ambigue su molti temi sociali, stava rischiando di logorarsi lui stesso nel gioco paralizzante degli scontri istituzionali, ogni giorno più lontani dalla realtà della gente. Oggi, ha riaffermato con forza la propria centralità, mettendo fouri gioco i due principali rivali (il Presidente della Camera e il Primo Ministro). En passant ha anche silenziato, almeno per il momento, l’astro nascente della politica nazionale, quella Abir Moussi leader di un partito che non si vergogna di far riferimento ai metodi “duri” dell’ancien règime, ma che si fa anche paladino della laicità dello stato e persino dei diritti delle donne. Il fatto che Ennahdha e il Partito Destouriano Libero di Abir Moussi la pensino esattamente allo stesso modo sui temi dell’economia e della società non impediva a molti di vedere in lei l’alternativa futura all’invasione islamista dello stato, alla deriva conservatrice e ai mali del paese. A questo momento, Abir Moussi non si è ancora pronunciata sugli avvenimenti recenti, che vanno nella direzione da lei indicata, ma … senza di lei.
Ma su quali poteri può contare il Presidente della Repubblica? E, soprattutto, per fare cosa?
Nel 2011 la rivoluzione iniziata sull’onda della rabbia popolare, fu rapidamente “sequestrata” ed ingabbiata (come è inevitabile che accada alle rivolte senza guida e linea politiche), da chi invece la linea politica l’aveva ben chiara, ed era riassumibile nella nota massima gattopardesca “cambiare tutto affinché non cambi nulla”. Il “dittatore” venne mandato in esilio, ma il suo ceto politico si riciclò rapidamente dividendosi tra il partito islamista, che rientrava nel paese da vincitore, e la tendenza laica incarnata dall’ex presidente Beji Caïd Essebsi (defunto proprio due anni fa, in un precedente anniversario della repubblica). Ancora una volta, due tendenze senza grandi differenze reali se non sugli aspetti legati alla laicità dello stato, che finivano con il giocare un gioco reciproco di sponda, nascondendo la realtà di fatto per cui l’esito della rivoluzione aveva creato le premesse affinché i poteri reali restassero gli stessi di prima (se si esclude qualche sequestro di beni del clan legato a Ben Alì e alla moglie), come la rapida disaffezione elettorale dei ceti popolari ha ampiamente dimostrato.
Quella “rivoluzione” potè avere quel tipo di esito probabilmente anche per il gioco delle ingerenze internazionali. In Tunisia, è un dato di fatto, buona parte del potere reale non è in Tunisia. Quando Ben Alì andò al potere nel 1987 la longa manus di governi come quello francese e quello italiano di allora (principali partner commerciali) risultarono abbastanza evidenti. E nel seguito dei suoi mandanti ripetutamente conquistati con elezioni-farsa era evidente che chi comandava nel Paese, a parte il clan del presidente che ne approfittava per accaparrare tutto l‘accaparrabile, fossero gli alleati euro-mediterranei sul piano politico, il grande alleato d’oltreatlantico sul piano militare, il Fondo Monetario Internazionale sul piano economico. Allora, lo schieramento dei vertici dell’esercito a favore della caduta di Ben Alì non è escluso che sia stato favorito proprio nell’ambito della “cooperazione militare” internazionale: difficilmente, altrimenti, i vertici militari avrebbero corso quel rischio.
A dieci anni da quella rivoluzione, le cose non sembrano essere cambiate sul piano economico: il tema dominante su tutto è sempre quello del debito estero e delle connesse “riforme” sollecitate dal FMI, che impoverirebbero ulteriormente i ceti già poveri. Ma sul piano politico-militare lo scenario presenta nuovi attori. Il partito islamista al potere non può non rappresentare una maggiore ingerenza nel Paese dei suoi protettori internazionali, che se un tempo erano da rintracciare nel movimento dei Fratelli Mussulmani e in Qatar (nonché nei circoli conservatori statunitensi), oggi fanno più riferimento alla Turchia di Erdogan. Una Turchia che diventa sempre più attore nello scenario regionale di questa parte del Mediterraneo a causa del suo ruolo crescente nel grande convitato di pietra della politica tunisina: il conflitto libico. Che si aggiunge all’altro tema dalle potenzialità deflagranti: il dossier delle migrazioni, sia come tema sociale interno che come tema internazionale soprattutto verso l’Italia e l’Unione Europea.
Con Abir Moussi accusata di essere una longa manus degli Emirati e Ghannouchi invece di esserlo del Qatar e della Turchia, dove si colloca Kaïs Saïed? Difficile dirlo al momento. Una cosa è certa, i margini di manovra di qualsiasi governo tunisino, più o meno democraticamente eletto che sia, sono molto, molto stretti. Un governo che volesse davvero mettere mano ai dossier sociali si scontrerebbe comunque con la mancanza di risorse e con il rischio di rinforzare il cappio del debito. Ma per ottenene nuovi crediti dovrebbe metter mano alle “riforme” chieste dal FMI, prime fra tutte: ridurre la spesa pubblica, i sussidi ai generi di prima necessità e la massa salariale dei pubblici dipendenti, ricacciando quindi ancora più in fondo al baratro coloro in nome dei quali i crediti andrebbero chiesti. Teoricamente una politica di redistribuzione interna sarebbe possibile, ma si scontrerebbe con il potere reale economico sopravvissuto a Ben Alì e rischierebbe di travolgere qualsiasi partito la proponesse, visto che quel potere reale controlla i centri decisionali dello Stato. Il dossier migrazioni mette in gioco le alleanze internazionali, la tentazione di “fare come Erdogan” (tenere le frontiere europee sotto la costante minaccia dell’invasione per ottenere fondi, favore politico e la chiusura di tutti gli occhi rispetto alle continue violazioni dei diritti umani) ma anche il fatto che le rimesse degli emigrati sono oggi più che mai la principale fonte di valuta indipendente, specie da quando il turismo sembra ormai, dopo la rivoluzione, le stragi islamiste, la pandemia e oggi una nuova instabilità, una chimera del passato.
Gli esiti degli avvenimenti di questi giorni, qualunque siano le intenzioni dei protagonisti, sono comunque ingabbiati nell’alternativa tra questi stretti limiti e una prospettiva di caos permanente e violenza da cui non verrebbe nulla di buono per i tunisini che oggi festeggiano il colpo di testa di Kaïs Saïed.
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