20Settembre2022 Lentamente Amman

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di Francesca Donà, volontaria nell’ambito del Servizio Civile Universale in Giordania

Sono trascorsi poco più di due mesi da quando è iniziata la mia esperienza di volontaria del Servizio Civile Universale presso l’ufficio di ARCS Giordania, ad Amman. É una sensazione difficile da rendere a parole quella che provo ogni volta che mi reco in un Paese arabo o medio-orientale.

È la serenità che trasmette la soave musica dell’adhan (la chiamata alla preghiera del muezzin) al tramonto, è la sensazione di familiarità data dalle campane delle chiese la domenica. È l’energia trasmessa dall’aroma pungente del caffè al cardamomo e dal sapore agrodolce dei waraq dawali (involtini di foglie di vite, ripieni di riso e carne speziati) preparati dal vicino di casa. È la passione verso una lingua così poetica nelle espressioni e al contempo così aspra nei suoni. È lo stupore nella scoperta di un nuovo murales, dipinto per adornare le vie della città. È la quiete che si prova osservando il mosaico di luci dai rooftops delle palazzine la sera. È la confusione provocata dal traffico scombinato e dal rumore fastidioso dei clacson a Wast al-Balad (il centro della città). È il senso di smarrimento arrecato dal frastuono degli aerei militari che sorvolano la città.

Queste sono solo alcune delle immagini e sensazioni che Amman mi sta regalando e facendo provare e di cui, in parte, ero già stata testimone quattro anni fa, quando mi ero recata per la prima volta in Giordania per svolgere un’esperienza di volontariato. Nonostante abbia notato dei cambiamenti, ho ritrovato molte delle peculiarità che avevano contribuito a farmi innamorare di questa città.

Ho ritrovato l’ospitalità tipica della cultura araba e medio-orientale, in base alla quale per almeno tutto il primo mese dopo il tuo arrivo non devi preoccuparti di cucinare il pranzo o la cena, perché ci sarà sempre un vecchio amico o un nuovo vicino di casa pronto a deliziarti con piatti locali.

Ho ritrovato l’atmosfera rilassata nelle fresche sere d’estate sui rooftops, dove è molto facile incontrare persone con cui condividere passioni e interessi.

Ho ritrovato una vibrante scena artistica locale, con nuovi centri culturali dove è possibile partecipare a workshop di ogni genere, dai più tradizionali corsi di calligrafia araba, ai più atipici corsi di Nai, strumento musicale tipico del Medio Oriente.

La prima volta che mi sono recata in questa città, la gioia di trovarmi nel cuore del Medio Oriente e il desiderio di scoprire un luogo sconosciuto mi avevano fatto focalizzare esclusivamente sugli aspetti positivi della città, rendendomi cieca verso il rovescio della medaglia. Ora, consapevole che il mio soggiorno sarà prolungato, mi sto concedendo del tempo per osservare lentamente e cercare di comprendere più a fondo la realtà in cui vivo e le dinamiche sociali che vi si dispiegano nella quotidianità.

La scarsità di spazi pubblici aperti (parchi, piazze, aree pedonali) in cui le persone possono incontrarsi e riunirsi e il rigido controllo esercitato dalle forze di polizia su quelli esistenti (come la Hashemite Plaza che si trova di fronte al Teatro romano) è una caratteristica di Amman che si manifesta dopo qualche mese dipermanenza in città. Ciò che ne deriva è, a volte, una sensazione di asfissia che è causata dalla difficoltà di trovare luoghi adatti a esprimere liberamente e affermare pubblicamente la propria identità e le proprie opinioni.

L’inaccessibilità della città alle persone con disabilità, specialmente di tipo motorio, dovuta, non solo alla conformazione geografica – essendo Amman originariamente sorta su sette colline-, ma anche a una pianificazione urbana sorda rispetto alle necessità delle persone con bisogni speciali, è una questione su cui riflettere. In diversi quartieri della città, per esempio, i marciapiedi sono quasi totalmente occupati da piccole aiuole che costringono i pedoni a camminare sul ciglio della strada tra le automobili che sfrecciano incuranti dei passanti.

Un’altra dinamica che sto riscontrando è l’elevata presenza di street harassment, forse inasprita dai mesi di pandemia e dalla “anomia interazionale” da essa derivata. Quando si cammina per strada, è facile essere oggetto di attenzioni e commenti indesiderati da parte di alcuni giovani del luogo che sono motivati ad agire in questo modo esclusivamente dal fatto che si trovano di fronte una ragazza non accompagnata. Una sorta di “profezia che si auto avvera” se si considera che da anni i giovani del luogo sono trattati come un problema sociale e sono vittime di politiche che ignorano i loro bisogni e le loro aspettative. Un esempio è l’esclusione dei giovani di sesso maschile da molteplici spazi pubblico-privati (come, ad esempio, i centri commerciali e alcuni locali notturni) sulla base di leggi che limitano l’accesso solamente a gruppi misti, famiglie e coppie.

Alcuni dei progetti che ARCS implementa nel Paese e a cui sto partecipando come volontaria del Servizio Civile sono specificamente pensati per andare incontro alle esigenze dei giovani più marginalizzati, sia giordani, sia rifugiati. Un esempio è il progetto REACT-IN, il cui scopo è proprio quello di rafforzare le capacità delle organizzazioni locali che lavorano con i giovani e incentivare la creazione di opportunità in cui questi possano esprimersi liberamente e tessere reti sociali.

Quella del Servizio Civile si sta rivelando un’esperienza interessante. Si tratta di un anno di transizione in cui si ha la possibilità di vagliare diverse strade a livello professionale, scoprendo i propri interessi, e di acquisire competenze tecniche, affiancando quotidianamente esperti nel settore della cooperazione internazionale. Oltre a ciò, avendo parecchio tempo libero, è possibile coltivare le proprie passioni, immergersi e riflettere su una cultura diversa dalla propria e dedicarsi allo studio della lingua locale.

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