12Dicembre2022 Spaesamento

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di Cloé Gosparo, volontaria di Servizio Civile Universale in Tunisia

Saltiamo in un taxi e ci catapultiamo in un quartiere anonimo, l’Aouina. Si tratta di una periferia di Tunisi in cui si concentra una minoranza della popolazione subsahariana della capitale. Cerchiamo un ristorante africano ma non ne vediamo l’ombra. Un ragazzo algerino sta grigliando del pesce. Eccolo. Ci sediamo e sua moglie, di origine camerunese, ci serve un piatto che viene da lontano: orata grigliata, accompagnata da attiéké, cioè semolino di manioca, platano fritto e insalatina di peperoni, pomodori e cipolla. Le spezie e queste combinazioni di ingredienti ci fanno viaggiare, non siamo più in Tunisia, non siamo più a l’Aouina.

Quante volte mi è successo di provare lo spaesamento in Tunisia. Voglio chiamarlo così, è una sensazione unica. Mi sento persa ma allo stesso tempo in connessione con il mondo, sento di farne parte. Non mi trovo in un solo luogo ma in diversi luoghi. Non mi sento sola ma assieme a persone, cose, piante, animali, terre. Il mondo mi prende nelle sue braccia e mi fa bere il suo cocktail di vita.

Come quando sulla strada che porta a El Haouaria mentre viaggiavo in macchina con degli amici abbiamo acceso la radio, trasmetteva “Rai radio 1”. Siamo scoppiati in una risata di stupore, ascoltavamo la radio, fuori c’era una moschea dorata, un motorino con quattro persone sopra senza casco ci ha superato. Vedevamo le colline sullo sfondo. Arrivati al mare finalmente, sulla penisola dell’Haouaria, che punta verso l’Italia, il cielo era limpido. Era estate, abbiamo deciso di prendere una barchetta. Sfrecciando in mare sullo sfondo si vedeva uno “scoglietto” che poi abbiamo scoperto non essere tanto piccolo: Pantelleria. Ci siamo fermati a guardare l’ora, c’era troppa luce, non potevano essere le sette di sera. I nostri telefoni si erano sintonizzati sull’orario italiano. Il mare luccicava e abbracciava due terre che si guardano: eravamo in Tunisia e in Italia allo stesso tempo.

Spaesamento è anche quando sento parlare in tunisino. La maggior parte degli autoctoni non se ne accorge ma utilizza ogni giorno parole che derivano direttamente dalla lingua italiana, da quella francese, quella turca, quella amazigh, spagnola etc. Dall’italiano cappotto deriva kabbut, da cucina deriva kujina, da fattura deriva fatura etc. Dal francese place deriva blasa (posto), da adresse deriva adrissa e così via. Tuttavia il francese si può dire che ha propriamente contaminato il tunisino. Soprattutto nella parte settentrionale del paese vengono utilizzate parole francesi che rimangono invariate e si intrecciano nell’arabo. Dalla lingua berbera amazigh deriva couscous e dallo spagnolo zanahoria (carota) deriva sfinnarya. Se verrete in Tunisia e riuscirete a capire un po’ la lingua tendete l’orecchio: “Fil kujina klina l makruna.” “El berah shrit kabbut fil fripe u fil khadhar zuz kilo sfinnarya”. “Khodua besh nemshiu l busta, atini détail sghir mntaa l’adrissa.

Il tunisino è spaesamento, lo ascolto, mi guardo in giro, lo provo a parlare viaggiando.

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