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Paesi di intervento
La Prof.ssa Pina Lalli racconta il legame tra etnografia e cultura sperimentato all’interno del progetto REACT-IN
Un oggetto d’arte, una fotografia, un video, una mostra, una rappresentazione teatrale possono essere considerati semplici oggetti di consumo di cui usufruiamo nell’unico ruolo di spettatori. Ma, non potrebbero, invece, assumere una veste tanto più importante e tanto più significativa e portatrice di apertura e cambiamento del nostro orizzonte, quando ci sentiamo, e siamo partecipi della loro costruzione e fruizione creativa? E quindi della loro vita simbolica?
Con questa domanda retorica, la Prof.ssa Pina Lalli, docente di Sociologia della Comunicazione, presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, ci spiega la correlazione tra etnografia e cultura. Un legame che ha guidato la nascita di un’idea: la costruzione di linee guida per azioni volte a promuovere l’inclusione di giovani esclusi dalla vita sociale dei loro coetanei.
In questa intervista la Prof.ssa Lalli ci racconta il processo di costruzione di questa azione, che si inserisce all’interno di REACT-IN – Rethinking Arts for Cohesion, Trust and Inclusion, un progetto che si occupa di migliorare strumenti e competenze di formatori e formatrici, e organizzazioni impegnate in attività di inclusione di giovani siriani in Libano, Turchia e Giordania, attraverso l’utilizzo dell’arte, nelle sue varie forme.
Chi sono le figure protagoniste di questa idea?
Elena Baracani e io siamo due docenti del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna e con noi collaborano Ozge Memisoglu, giovane ricercatrice turca che ha un dottorato di ricerca in Studi globali e Internazionali, e Riccardo Gasco, dottorando in Scienze Politiche e Sociali. Elena Baracani è professoressa di Scienze Politiche, esperta di politica estera dell’Unione Europea, con un focus particolare anche sul tema dei rifugiati. Io insegno invece Sociologia della Comunicazione e da anni mi occupo di tematiche collegate alla salute e all’inclusione sociale, cercando di intercettare le innovazioni comunicative che abbandonano lo stile persuasivo top-down per introdurre modelli partecipativi che favoriscano processi di empowerment dei cittadini.
Come sono stati usati elementi propri dell’etnografia per condurre le visite studio in Libano, Tunisia e Giordania?
L’etnografia si concentra soprattutto sul significato che i componenti di un gruppo sociale attribuiscono alle proprie azioni, cercando di rilevarlo attraverso vari metodi di lavoro sul campo, ma soprattutto mediante l’osservazione e l’ascolto. Osservazione e ascolto scevri il più possibile da giudizi valutativi predeterminati o persino da teorie predefinite, proprio perché l’etnografo cerca di ricavare la teoria dalla prospettiva dei membri di una determinata cultura o comunità, e può anche tornare da loro per verificare la validità di quanto ha interpretato.
Perché è importante valorizzare la ricerca etnografica; e cosa è emerso da interviste e focus group?
Nel caso del lavoro condotto all’interno del progetto REACT-IN abbiamo dovuto ritagliare e adeguare il lungo lavoro dell’etnografo ai tempi e alle difficoltà intrinseche di osservazione. Abbiamo quindi voluto privilegiare i racconti e le conversazioni di chi lavora con i richiedenti asilo e i rifugiati in tre territori diversi, nell’ipotesi che attraverso la narrazione delle loro esperienze e anche grazie alle discussioni tra loro si potesse insieme rilevare un quadro sufficientemente accurato sia delle difficoltà avvertite come più urgenti soprattutto fra i giovani, sia delle modalità tentate per affrontarle. In altre parole, attraverso il racconto degli operatori delle associazioni e delle ONG coinvolte in loco nel progetto, abbiamo cercato di comprendere in quale prospettiva essi collocassero il significato, per la vita quotidiana di relazione, della condizione di giovane rifugiato o richiedente asilo in Turchia, Libano o Giordania.
L’obiettivo dei focus groups è stato quindi in primo luogo l’ascolto, ma anche l’opportunità di condividere esperienze e metodi di definizione oltre che di soluzione dei problemi, interrogandoli attraverso la discussione e, in una seconda fase, con una verifica laboratoriale pratica di analisi di caso in appositi incontri di training workshop.
Il quadro politico, giuridico, economico e culturale del paese ospitante porta ad una rappresentazione delle urgenze differente: la mancanza di un’occupazione stabile e ben remunerata nel paese più povero, l’emarginazione ghettizzante nel paese in cui nei lunghi anni della guerra si è passati dai sentimenti di benevola accoglienza al trattenimento forzoso e forzato, che finisce per innalzare steccati e pregiudizi, l’apparenza di una convivenza più facile eppure comunque problematica e segregata laddove si condivida la medesima tradizione religiosa. Questi sono solo alcuni esempi della profonda complessità dei temi emersi, con i quali gli operatori si confrontano, testimoniando la fatica di avere a che fare con una ambivalenza che deriva dall’impossibilità di libera scelta. Mettere in gioco questi problemi dal punto di vista artistico e culturale, mettendosi il più possibile nella prospettiva, in primo luogo, di chi è escluso ma anche tenendo conto delle faglie che persino chi esclude potrebbe far dischiudere se si riuscisse a toccare le corde giuste. Questa è un po’ la sfida che cercheremo di affrontare nelle analisi di fattibilità che insieme a vari operatori proviamo a realizzare nei training workshop di questa seconda fase.
Che apporto può dare una ricerca etnografica al lavoro di associazioni che si occupano di inclusione sociale di giovani siriani in contesti e paesi così diversi?
Osservazione e ascolto possono essere anche una leva metodologica importante per il lavoro quotidiano di associazioni e ONG, proprio quando operano in paesi diversi e con giovani inopportunamente esclusi dalla vita sociale dei loro coetanei. Tuttavia, il rischio che corriamo quando siamo animati da una bella passione di intervento risolutivo è di immaginare di conoscere già la soluzione ideale, come se fosse un modello valido per tutti e per tutte le situazioni, e che quindi occorra solo preoccuparsi di avere infrastrutture, risorse, tecniche e strumenti per realizzarla. Fermarsi a comprendere il significato attraverso cui sono definiti e affrontati i problemi dalle persone che li vivono può invece essere un modo in cui impariamo da loro quale possa essere la soluzione più adatta e adeguata. L’etnografia insegna in primo luogo modestia e tempo per comprendere.
Migrazioni, guerre, carestie, richieste di asilo ci rimandano sempre al tempo veloce dell’emergenza, e in nome dell’urgenza di risposta compiamo spesso scelte autorevoli ma autoritarie, che possono però, talvolta, rivelarsi inefficaci. L’etnografia serve a ricordarci quale sia il senso delle nostre risposte. È a servizio della cultura, ci permette di capire se c’è ancora qualcosa in grado di farci riconoscere come umani anche quando siamo vittime, private del nostro spazio vitale da una guerra o da un disastro, e sembra che nulla abbia più senso. L’etnografia può permetterci di «fare spazio» alle parole dell’altro perché possano «trovarvi rifugio», affinché possa realizzarsi una relazione significativa a cui entrambi partecipiamo.
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