17Novembre2023 Libano Mon Amour

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di Pietro Cireddu, volontario del Servizio Civile Universale in Libano. Pietro, insieme a Virginia, sua compagna di SCU, è stato temporaneamente trasferito nella sede ARCS in Giordania per ragioni di sicurezza in seguito agli avvenimenti del 7 Ottobre nella Striscia di Gaza

E’ notte ad Amman.

Calmo, devo provare a stare calmo.

Le notizie si succedono con una regolare e spaventosa continuità. Telegram e Instagram ribollono, confondendomi la mente. Breaking news (!!!), motaz_aziza ha iniziato una diretta, missili lanciati dal Libano. Qualcuno parla dal Qatar, l’Iran: “Senza un cessate il fuoco attaccheremo“, Israele: “Se Hezbollah dovesse attaccare farà l’errore della sua vita, colpiremo con una forza che non può neanche immaginare e per il Libano sarà devastante“. Aspetta, cosa ha appena detto Blinken? Come dovremmo interpretare le sue parole? E poi altre parole ancora, “escalation più vicina”, “paura per il fronte Nord”… è stato colpito l’ospedale Al-Ahli, dove molti civili si erano rifugiati in cerca di protezione e rifugio… chi è stato? Qualcuno sta mentendo? Tre giorni dopo: “Israel strikes near Gaza’s biggest hospital”. Di chi era il missile sul primo ospedale? Adesso già non fa più notizia, ormai “khalas”, è andato, è successo. Adesso SI PUO’ FARE. Migliaia di morti a Gaza. Vari quotidiani italiani pubblicano articoli: “Ci possiamo fidare dei numeri dati dal Ministero della Sanità della Striscia?”. Effettivamente nel contesto attuale è di primaria importanza saperlo – penso arrabbiatissimo – caso mai fossero qualche centinaio in meno…  disgusto. Mi arrivano altre parole, altri stimoli: genocidio, pulizia etnica. Ancora: centomila manifestanti a NYC, piazze piene a Londra, Parigi (nonostante i divieti), Casablanca, Baghdad, Istanbul, Barcellona, Lisbona. Ebrei antisionisti fanno un sit-in al Congresso americano. Com’è possibile che non otteniamo almeno un cessate il fuoco? – mi domando-, le Nazioni Unite rilasciano una dichiarazione: “preoccupazione per possibili violazioni del diritto umanitario”; gli USA mettono il veto sulla mozione del Brasile per un cessate il fuoco. La popolazione a Gaza beva acqua di mare, ACQUA DI MARE!

Paura, preoccupazione, rabbia. Tanta rabbia. Dolore. Senso di impotenza, soprattutto.

Devo provare a stare calmo.

Non so che orizzonte di senso trovarmi per questa situazione… mi viene in mente la celebre frase pronunciata da Hubert, personaggio de L’Odio (1995, Michel Kassovitz):

Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene… Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

Ma non c’entra niente, perché ogni piano che scendiamo è già un atterraggio, un gradino in più che scendiamo nell’oscurità e nella sua normalizzazione, e in Palestina i problemi c’erano ben prima del 7 Ottobre. È prioritario evitare un conflitto regionale, e tutti siamo spaventati da questa prospettiva, eppure la guerra c’è già. Essere caduti solo fino al 46 piano non ci può rendere contenti. “Cos’è in fondo un altro cadavere tra le fondamenta?” grida ironicamente Rorschach, in Watchmen (2009), riferendosi alla cinicità di un mondo dove conta arrivare al tavolo delle trattative con una certa quantità di morti – martiri nel linguaggio di alcuni –  dove più si soffre più si ha legittimità politica, dimenticando nella guerra del dolore condizioni storiche e politiche antecedenti: occupante-occupato, colonizzatore-colonizzato, apartheid, nakba…

Devo stare calmo.

Devo proteggermi.

Vedere un video in più sulla situazione in corso non mi renderà più sensibile, ma più indifferente. Me la farà normalizzare, e tutto questo non è normale (ma proprio qui torneremo). Ci sono delle ragioni storiche in tutto ciò? Sì. Ciò che è successo era prevedibile? In una certa misura sì. Era evitabile, per entrambe le popolazioni si poteva avere una pace, invece di questa guerra? Sicuramente. A patto di fare i conti con “le cause della sofferenza (l’ingiustizia), e non i suoi sintomi (la violenza)” sento dire allo storico israeliano antisionista Ilan Pappé.

Proteggersi. Un discorso che mi ripete il mio amico Farid, libanese, attualmente a Beirut, nella chiamata che facciamo. “Non riesco più a controllare le news, sono contento che mi abbiano dato il visto per viaggiare in UK a Novembre, così me ne vado un po’ dal Libano… è assurdo non sapere neanche se è il caso di pianificare il Natale con la famiglia o cosa fare a Capodanno per la possibile guerra… Il pensiero mi sta tormentando”. Mi viene in mente che nei soli cinque giorni passati in Libano dopo il 7 ottobre, prima di venire trasferito ad Amman, non riuscivo a concentrarmi, dormivo male ed ero spesso irritabile o assente. Una prospettiva che ti annebbia la mente, quella che nel tempo di uno schiocco di dita il paese dove hai passato i tre mesi precedenti – imparando a conoscerlo, con la sua storia e le sue persone – possa entrare in guerra. Pensi subito a quel weekend qualche settimana prima trascorso a Tiro, città abbastanza vicina al confine, pensi alla bellissima Valle della Bekaa. Sai già quali zone del paese o di Beirut sarebbero le prime ad essere colpite da eventuali bombardamenti, come ti raccontano essere già avvenuto nel 2006. Mi fa strano però che adesso anche Farid mi dica che è stanco. Perché devo dirlo, quell’11 ottobre in cui nell’arco di poche ore ho dovuto salutare tutti, andandomene da un giorno all’altro, i libanesi hanno ostentato il loro migliore ottimismo. Mi ricordo che Farid mi raccontava i suoi piani per il weekend: campeggio a Faraya e forse anche arrampicata su roccia. Quando con la mia faccia un po’ spaventata, pongo delle silenziose obiezioni, mi viene subito offerta la risposta: “Sì ma se nasci qui, sai che è una cosa che può succedere… è brutto da dire, non ne sto facendo un vanto, ma se nasci qui certe cose finisci per normalizzarle”.

Penso allora a tutte le persone conosciute in questi mesi, libanesi ma anche siriane. A quanto stiano provando – come evidente in quei primi 5 giorni – a vivere nella maniera più normale possibile. Penso alle varie battute che ci sono state fatte alla partenza “No, ma non vi preoccupate che tornate eh… al massimo, fanno cinque o sei giorni di guerra, e poi mediano una pace” ci ha detto Ismat, un nostro collega di 24 anni, con il suo umorismo sempre un po’ nero. Mi ricordo un dato: chi è nato prima del 2000 in Libano ha nella sua memoria una guerra con Israele. Magari è stato sfollato, perché viveva nella valle della Bekaa o al Sud, e si ricorda di essere partito, un giorno, all’improvviso, lasciando casa sua per qualche mese. Altro dato: chi ha più di 40 anni è in grado di ricordare chiaramente almeno una parte della quindicennale guerra civile che sconvolse il paese (e che vede, tra le principali cause, proprio la questione palestinese). Tutti i libanesi hanno, chi più chi meno, vissuto in un paese mai completamente pacificato, che non ha elaborato una memoria comune rispetto alle divisioni confessionali che la accesero. Tutte queste sono cose che, parlando con le persone, a volte sfiori casualmente, tocchi senza accorgertene, e improvvisamente compaiono, ricordando una distanza tra te e loro fino a quel momento invisibile.

Ricordo una cena in cui un ragazzo libanese di nome Mansoor ci ha detto “Until you are not dead, at least you are not dead”, sorridendo. “Sì, magari sei cascato, sì certo, ti sei rotto un braccio” – proseguiva – “ma almeno sei ancora qui tra noi. Finché sei vivo devi andare avanti. Perché perdere tempo a lamentarsi?”. Certo ora, con l’incertezza che va avanti da più di un mese, anche loro stanno un po’ cedendo, nonostante l’ottimismo. Ci giungono voci di persone che stanno facendo scorte di generi alimentari a lunga conservazione – così, just in case – o di persone che scappano dai quartieri più a rischio bombardamento nel caso di guerra. Al contempo però la vita scorre uguale, in un clima quantomeno strano.

Ora, non voglio parlare come il solito europeo etnocentrico in giro per il mondo, e quindi faccio una premessa. Il Libano è un paese bellissimo, e oggi sarebbe un’isola felice e ridente, se non fosse situato in una regione dove si susseguono guerre da circa un secolo, con ampie responsabilità occidentali nel tempo sia vicino che lontano. E – in parte – lo è comunque; è un paese pieno di cultura e storia, di movimenti intellettuali e artistici innovativi, di letteratura e di musica. Non voglio dipingerlo con gli occhi della pietà terzomondista, il Libano è un paese con dei problemi storici contingenti (e di cui una certa parte delle responsabilità sono adducibili alla politica estera di paesi europei prima e occidentali dopo), non un paese strutturalmente sofferente. Al contempo, vorrei però sottolineare quanto il coraggio e la forza delle persone, nel momento in cui anche io ero in difficoltà – seppure in una parte minima in quanto privilegiato – mi abbiano colpito, e dato forza. Come dettomi da Farid, è bruttissimo dirlo, ma sì, loro ci sono abituati. Ed è in queste situazioni che ti rendi conto in modo spicciolo cosa significhi privilegio, perché tu invece, nato e vissuto in Italia, la prospettiva della guerra non la reggi neanche un minuto. Ti sovrasta. Una cosa così grossa, che non hai deciso tu, che può radicalmente cambiare i tuoi piani di vita. Il privilegio sta inoltre nel fatto che, mentre migliaia di persone – tra cui alcune che conosci, delle facce, dei nomi – vorrebbero andarsene, tanto più in caso di guerra, e invece rimangono bloccate in Libano, salvo sfidare il mare o la terra e finire nel perverso e violento sistema d’asilo di un qualche paese europeo, tu parti “in via precauzionale”, per la tua sicurezza. La tua vita è diversamente tutelata. Certo, non è per dire che bisogna fare gli eroi, pensando di rimanere in situazioni da cui altri vorrebbero andarsene e non possono, eppure su tutto ciò è necessario interrogarsi. E allora, sovrastato da fatti più grandi di me, che non ho mai dovuto gestire così da vicino e che, seppur in maniera comoda e privilegiata, hanno comunque avuto un impatto sulla mia vita – spazzando via in cinque giorni la mia idea su cosa avrei fatto negli otto mesi successivi – che senso posso dare a tutto questo? E il dolore costante di questa parte di mondo, così ricca e bella e che se avesse avuto il privilegio della pace negli scorsi cinquant’anni ora sarebbe davvero una terra fertile per i popoli che vi abitano, come posso processarlo? Cosa fare di tutti questi pensieri che affollano la mia mente?

Sto per chiudere la chiamata con Farid, parliamo di futuro. E’ vicino ad ottenere un permesso per lavorare a Dubai – non vorrebbe andarci ma è la sua unica possibilità legale per dare una svolta alla sua vita – ma con la guerra le possibilità che emettano il visto si riducono ulteriormente. “Ia’ni, difficile programmare il futuro…” mi dice con il suo inglese perfetto ma con un tocco di arabo. “Soprattutto in Libano” gli rispondo io, facendo il simpatico e prendendo parte al gioco sociale più divertente del paese. Farid mi risponde in maniera fulminea, ridacchiando “Beh.. ora lo sai anche tu maan”, e se la ride, come se la ride, della nostra sventura – diversa eppure adesso un po’ più comune – quasi a darmi, seppur con qualche riserva, una cittadinanza nel suo mondo.

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