Dall’inizio della crisi umanitaria in Afghanistan, ARCS, ARCI,  l’Università La Sapienza di Roma e il corso di Global Humanities si sono attivate per promuovere corridoi umanitari, trovare soluzioni diplomatiche e personali per sostenere e mettere in salvo centinaia di persone: studentesse, studenti, le loro bambine e bambini, giornaliste minacciate di morte, artiste che vogliono tornare a dipingere, medici e dottoresse che aspettano di poter ritornare in corsia.

Molte di loro hanno atteso per giorni in rifugi precari intorno alla città di Kabul ma la spesa economica legata all’approvvigionamento di cibo e generi di prima necessità è diventata insostenibile. Servono fondi per pagare le spese per il cibo, le ricariche dei telefonini (WhatsApp diventa di cruciale importanza), le medicine e, non da ultimo, i costi per nascondigli e stanze a Kabul. Se non si dovesse trovare una soluzione al più presto saranno costrette a tornare a casa, nelle provincie del Paese e rinunciare ai loro sogni e al loro diritto di essere accolte in Italia.

Quadro dei ragazzi e delle ragazze dell'accademia di belle arti di Herat

COSA È SUCCESSO

Il 16 agosto Mara Matta, docente alla Sapienza e presidente di Global Humanities, un corso di laurea triennale in lingua inglese attivato nel 2020 alla Sapienza, di cui ARCS è partner, riceve una telefonata da Morteza, un brillante artista afgano residente a Roma da circa dieci anni.
Mara lo conosce da tempo e ora ha la fortuna di averlo come suo studente. Morteza è un afgano di etnia Hazara, un attivista impegnato.
Racconta che conosce un professore dell’Accademia d’Arte di Herat, una città con una ricca storia di antiche arti e maestranze. Nazir, pittore e musicista, ha appena distrutto la sua galleria d’arte. Ha seppellito manufatti e dipinti, colori e pennelli. Deve fuggire, lasciando indietro tutto quello che ha costruito finora. L’armonium, le tabla e la chitarra sono muti in un angolo della casa degli anziani genitori, gli unici che non possono (non vogliono) scappare. Nazir non può restare con loro. Ci sono le ‘sue’ ragazze da salvare, oltre alla sua famiglia.

L’Afghanistan è piombato nel caos. Non c’è tempo da perdere. Morteza chiude la telefonata lasciando la professoressa Matta con il contatto del prof. Nazir. Una serie di numeri.

È l’inizio del filo rosso.

Non si può stare senza far nulla. Il corso di Global Humanities nasce dall’idea che gli studi e la ‘sapienza’ non servono a nulla se non riescono a nutrire un impegno civile reale e costante.
La professoressa chiede aiuto e sostegno all’Università, che prontamente risponde.
Un gruppo di studentesse dei corsi di laurea in Global Humanities e Lingue e civiltà orientali si offre di dare una mano: bisogna creare dei gruppi WhatsApp, raggiungere le studentesse e gli studenti dell’Afghanistan già preiscritti alla Sapienza e trovare un modo per tirare fuori tutte le altre persone.
Global Humanities decide di riaprire la piattaforma di preselezione e permettere almeno ai soggetti più vulnerabili di iscriversi al corso di laurea. Le richieste arrivano a centinaia. Se ne conteranno quasi 400 in appena tre giorni, tra il 17 e il 20 agosto. Tra loro ci sono anche le ragazze di Nazir. Ci sono anche le ragazze di Fatima, quelle di Mohammad, quelle di Farzam… Ci sono i sogni e le vite di centinaia di giovani donne e uomini, ma anche di madri con bambini piccoli, adolescenti dai lunghi capelli che incorniciano un volto bellissimo, ancora non segnato dagli orrori. Il filo rosso deve crescere.

Si lancia un appello tra amici e conoscenti. ARCS e ARCI rispondono immediatamente dedicando la “giornata del dono” all’impegno delle studentesse di Global Humanities per le loro compagne afgane. Vengono raccolti fondi per sostenere le spese per il cibo, le ricariche dei telefonini (WhatsApp diventa di cruciale importanza), le medicine e, non da ultimo, i costi per pagare nascondigli e stanze a Kabul.

I soldi ricavati servono per continuare a pagare le spese della sopravvivenza a Kabul, dove ormai è sopraggiunto anche un altro nemico: il freddo. Ma saranno spesi anche per garantire la sostenibilità dell’operazione una volta che le ragazze e i ragazzi dell’Afghanistan giungeranno a Roma.
L’Università La Sapienza sta già lavorando per garantire il diritto allo studio delle studentesse e degli studenti dell’Afghanistan, ma i sogni di questi giovani non viaggiano da soli. Ci sono i bambini e le bambine di alcune studentesse, ci sono Nazir e la sua coraggiosa famiglia, che poteva salvarsi da sola ma ha portato via da Herat le ‘sue’ ragazze. Ci sono giornaliste minacciate di morte, artiste che vogliono tornare a dipingere, medici e dottoresse che aspettano di poter ritornare in corsia.
Bisogna garantire il diritto a una vita dignitosa e serena anche fuori dall’aula dell’università. L’Ateneo ha previsto delle agevolazioni per gli studenti afgani e si è impegnato a trovare borse e alloggi. Ma la vita in Italia ha un costo molto alto per chi non ha potuto portare con sé nemmeno i propri disegni o una chitarra.

Quadro dei ragazzi e delle ragazze dell'accademia di belle arti di Herat

Dipinto di Elaha R.

COSA PUOI FARE TU

Per sostenere questa azione solidale puoi acquistare un classico panettone natalizio, realizzato dalla pasticceria La casa del Dolce di Ciampino, con ingredienti naturali e genuini.

Il costo del singolo panettone è di 15 euro. La spedizione costa sempre 12 euro per confezioni da 1 a 6 panettoni

Per gli acquisti a Roma è prevista la possibilità di ritirare il panettone presso la sede di ARCS,  in via dei Monti di Pietralata 16, senza costo di spedizione.

Per info e prenotazioni: natale@arcsculturesolidali.org oppure Tel: 0641609208 – 347 014 0022 (lun-ven h.10-15)

LE RAGAZZE DI HERAT

Dipinti di Elaha R.

Il Professor N. è un artista, un musicista, parte da Herat con la sua famiglia, sua moglie, il fratello più giovane e tre figli, fra cui una giovanissima pittrice: vuole raggiungere la capitale perché ha conosciuto via whatsapp una professoressa di Roma che vuole aiutarlo, seguendo un filo rosso di solidarietà che è stato lanciato e ha deciso di raccogliere.

Ma non parte da solo, affrontando un lungo viaggio attraverso un Paese in preda ai Talebani esaltati dalla recente presa al potere, porta con sé venti delle sue studentesse, le “ragazze di Herat”, e per lunghissime settimane le nasconde in una casa protetta, un rifugio in cui la sera di parla di poesia, di letteratura, si tenta di mantenere lo spirito alto anche se la paura di essere scoperte cresce di giorno in giorno.

Ormai però la voce si è diffusa:  cercano quest’uomo che ha con sé venti giovani che non sono della sua famiglia. La situazione è troppo rischiosa e a forza si convince a scappare.

Ogni giorno N. sogna di incontrare nuovamente le “sue” ragazze.

N. è una giovane studentessa di medicina, ha quasi completato il percorso di studio e sta per iniziare il tirocinio, ma il suo non è più “un paese per donne” ed è costretta a un matrimonio con un uomo con estreme difficoltà di dipendenza. Arrivano i bambini, il primo, il secondo, e all’arrivo della terza, una bambina con un problema cardiaco, arrivano anche i Talebani. Ogni sogno di completare il suo percorso e diventare un medico sfuma, e l’unica possibilità è la fuga. Insieme a una ragazzina orfana, H., si avventura in aeroporto per salire sull’ultimo aereo prima che le rappresentanze estere lascino il Paese. Lunghe ore di attesa passano: la sete, la paura, la violenza degli uomini armati che urlano, malmenano, puntano i fucili, gridano di andarsene. E infine se ne vanno, scampando all’attentato all’aeroporto.

La speranza rimane quella lontana università italiana che le propone di tentare di ricominciare da capo, un filo lanciato su whatsapp. Dopo numerosi tentativi in aeroporto, lei con i quattro figli e figlie, riesce a salire su un volo, lasciando a terra però l’unica bambina non sua. I suoi sono in salvo, e ora vuole ricominciare medicina, e aiutare H. a trovare un volo che la riporti accanto a lei.

 

M. è una ragazza Hazara, la sua numerosa famiglia ha visto gli orrori del genocidio del 2001. Il ritorno dei Talebani significa ripiombare nell’incubo della persecuzione. Riesce, nonostante la copertura internet molto altalenante, a mettersi in contatto con delle persone che vogliono sostenerli, e aiuta la sorella più giovane, appena diplomata al liceo, a immatricolarsi all’università di Roma. Lei, invece, non fa in tempo, la scadenza le chiude le porte proprio qualche minuto prima che riesca a inoltrare la sua domanda, e rimane fuori.

Ma non si dà per vinta, e aiuta tante compagne e compagne a raccogliere informazioni, a non perdersi d’animo, inizia perfino a imparare l’italiano, nella lontanissima speranza, un giorno, di poter partire con la sorella, insieme ai fratelli e ai suoi genitori stanchi e già anziani. Racconta, via messaggini, degli attentati alle scuole, degli zaini rovesciati sui marciapiedi, delle piccole alunne che si aggrappano ai libri mezzi bruciati per non perdere quel brandello di educazione che per loro significa libertà. E sogna anche lei, M, di poter studiare in un paese senza persecuzioni.

R. e H. sono un fratello e una sorella orfani, di 18 e 19 anni. Sono cresciuti in un piccolo centro rurale, ma all’arrivo dei Talebani sono fuggiti. Sembra che a Kabul ci sia una speranza, un giorno, di salire su un volo ed andare a studiare lontano. R. non ci crede tanto, mastica un inglese stentato e non capisce queste donne che gli chiedono, su whatsapp, di portare avanti procedure di immatricolazione, preaccettazioni, documentazioni, codici.

Eppure dall’altro capo del “filo” si insiste, ce la puoi fare, per te e tua sorella: seppur lontana, esiste una speranza di partire. Ma R. deve rimediare dei lavoretti per sopravvivere, mentre la sorella resta nascosta a casa, con le app sul telefono, a cercare di imparare un inglese che potrebbe significare la sopravvivenza. Passano i giorni, le settimane, ormai i mesi. Un giorno i Talebani lo picchiano, un altro giorno lo frustano per strada. Ma ogni sera torna a casa da H. e insieme, alla luce dello schermo del cellulare, studiano e sperano che quei messaggini, un giorno, li portino via da lì.

Z. è una giovane donna che ha fatto della bicicletta il suo simbolo di libertà! In un Paese in cui non era permesso alle donne di circolare sulle due ruote, lei insegna a correre ad altre donne, per vincere la violenza di genere e fare della solidarietà attiva il suo scopo.

Potrebbe continuare i suoi studi da dentista, ma preferisce collaborare con le ONG attive sul territorio, insegnare alle ragazze ad emanciparsi, lavorare, esprimersi, essere libere. All’arrivo dei Talebani si nasconde: una donna col suo profilo, non sposata, rischia tantissimo. Eppure le arriva un messaggio da un Paese lontanissimo, una donna sconosciuta le chiede se se la sente di intraprendere il viaggio verso Kabul per accompagnare S., una ragazzina rimasta sola, per ricongiungersi con la sorella e tentare la fuga. Da sola S. non può assolutamente muoversi, senza un uomo è impossibile farsi fare il biglietto del pulman, o circolare senza destare sospetti. Z. non esita un minuto, l’alba successiva è alla stazione, raccoglie la sua “protetta” e la difende, salgono insieme sull’autobus e arrivano a destinazione fianco a fianco. Vengono accolte in un rifugio insieme ad altre ragazze in attesa, e sono lì, ancora oggi fianco a fianco, in attesa di un nuovo viaggio insieme che le porti verso la libertà.

H. e A. sono due fidanzati, in un Paese in cui le unioni sono principalmente combinate, e i matrimoni sono un contratto fra famiglie. Sono Hazara, sono giovani ma ricordano bene il genocidio subito dal loro popolo, e sanno che al ritorno al potere dei Talebani l’unica possibilità di sopravvivere è la fuga. Lei è studentessa all’università americana, prova ad andare all’aeroporto il giorno dell’ultimo volo, ma non riesce a raggiungere il gate, l’aereo partirà senza di lei. Lui scappa per altre vie, arriva in un Paese limitrofo, dove è immediatamente un immigrato, un disperato, uno dei tanti ragazzi che aspetta il visto per andare a studiare alla sua università in Italia, ogni giorno più affamato, più maltrattato, più isolato. Manda i messaggi alla sua ragazza, che come in un film è stata contattata da altre studentesse a Roma, le dicono che c’è una possibilità, che c’è un altro volo per lei, e anche per sua mamma e il suo fratellino, che c’è speranza. A. non è molto convinto di questa storia, eppure un giorno le arriva la foto della sua H. davanti al Terminal 3 di Fiumicino, in salvo, che abbraccia quelle studentesse e la professoressa.

Quelle parole scritte su whatsapp sono diventate delle persone in carne ed ossa.
A. ci ha detto che va bene così, che è abbastanza per lui sapere che la sua H. è in salvo, ma quelle voci dal cellulare non si arrendono, un giorno anche A. sarà in una foto davanti al Terminal 3, ad abbracciare la sua ragazza.

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